Nell’assistere agli spasmi e alle peripezie affettive della sventurata Jasmine, pare quasi di udire, voice over, uno degli improbabili sillogismi sciorinati da Diane Keaton in Amore e guerra: “Amare è soffrire. Non amare è soffrire. Soffrire è soffrire”. L’uomo a cui Jasmine ha donato ogni palpito di cuore e la sua radiosa giovinezza era un manigoldo e un consorte fedifrago, indegno di cotanta devozione. La sua perdita ha lasciato, tuttavia, una conca incolmabile di tormento e afflizione e l’assenza di un uomo che possa fungere da sostituto o regalare un po’ di calore e conforto continua ad angustiare la malcapitata. Alla fine dei conti, la sofferenza sembra l’unica costante. E non va molto meglio alla sorellastra Ginger che, da sempre condannata a spasimanti bifolchi e beceri, s’illude d’aver incontrato il maschio ideale per scoprire che costui, così gentile così sensuale, è però già coniugato. Per chi non l’avesse compreso, siamo in film di Woody Allen ed è, quindi, l’amore ciò che conta e la fonte delle pene più severe. Più delle procellose sciagure che le si sono scagliate addosso, più degli stravolgimenti che l’hanno tramutata da patrizia in plebea, sono i sentimenti a struggere Jasmine, l’eros accesosi per la persona sbagliata e, ahilei, non ripetibile, l’eros incondizionato e sognante, ma anche bramoso e vendicativo e, se ferito, sveglia squillante delle pulsioni più vili.
Con il prossimo cimento, Magic in the moonlight, Allen ci guiderà di nuovo in Europa, ormai sua terra d’adozione, e precisamente nella Francia meridionale. Un ritorno all’America natia per narrare la storia di un’altra donna alle prese con l’inganno della vita è stato, tuttavia, salubre, visti i risultati. E gli Stati Uniti hanno ricambiato tributando a Blue Jasmine un’accoglienza lusinghiera, sia nella comunità critica che in sala.
Ispirandosi alla reale vicenda capitata all’amica di un’amica della moglie, o così dice, il regista segue l’umiliante trasferta di Jasmine, all’anagrafe Jeanette, nome non abbastanza chic per lei (insomma, Cate Blanchett), da New York, dove viveva da gran dama a Park Avenue, a San Francisco, dove abita invece Ginger (Sally Hawkins), inserviente in un supermercato. Jasmine è completamente al verde, dopo che il marito Hal (Alec Baldwin), speculatore finanziario aduso a crimini e misfatti spericolati, è stato arrestato e si è suicidato in carcere. Pur avendo sempre trattato Ginger con sufficienza, vuoi per un ex marito cafone (Andrew Dice Clay), vuoi per la sua modesta posizione sociale, Jasmine è costretta a domandarle ospitalità, finendo irrimediabilmente per scornarsi con il nuovo e triviale fidanzato, Chili (Bobby Cannavale). Proprio nella California in cui Annie Hall, a suo tempo, cercava di evadere dalle nevrosi, dall’etichetta soffocante e dalle file ai botteghini di New York, Jasmine, ormai nutrita di Martini e psicofarmaci, preda di sussulti di panico e oratrice di lunghi monologhi a voce alta, non riuscirà a ripulirsi dal bitume di quanto accaduto, dalle macerie morali che ha portato con sé nelle valigie di Louis Vuitton. Respinta la corte del dentista (Michael Stuhlbarg) dove ha trovato una precaria occupazione, Jeanette si trastullerà nel tentativo evanescente di ricostruirsi una vita accanto al ben educato e algido Dwight (Peter Sarsgaard), che, forse, cerca solo una graziosa mogliettina “di rappresentanza” e al quale lei, senza forse, racconta un cumulo tale di menzogne da restarne schiacciata.
Blue Jasmine è, in fondo, questo: un film sulla solitudine e sulle innumerevoli bugie a cui si appoggia il consorzio umano, le frottole che inventiamo per noi e per gli altri, le maschere dietro a cui celiamo le nostre vere fattezze. Le stesse che affiorano quando a Jasmine cola il trucco, tratti di un volto e di un’interiorità in disfacimento. Allen munisce di potenti casse di risonanza il suo congenito pessimismo, il suo spleen bergmaniano, l’idea che, dopo tutto, la fortuna è infida e nessun dio ci protegge da lassù, mentre l’amore è deciduo e, quando arriva, è solo il prodromo di un futuro rimpianto. Eppure, pur non concedendo margini alla speranza (il finale è straziante), il comico non rinuncia all’estro umoristico. Lungi dal numinoso (e serissimo) Interiors, più affine per tonalità a Mariti e mogli ma anche molto più cattivo, Blue Jasmine procede sul filo di un sarcasmo plumbeo e dissacrante, teso su di un precipizio vertiginoso da cui nessuno, volgo o demi monde, si salva. Jasmine si colloca a metà tra la Blanche DuBois di Un tram chiamato desiderio e la Norma Desmond di Viale del tramonto, con le quali condivide un’immotivata e ridicola alterigia, una robusta pazzia e i ripieghi in un universo parallelo di sogni e visioni medianiche del paradiso perduto. Di più: Jasmine, anche nel trapassato bengodi atlantico, è sempre stata sorda a ogni indizio di verità, ai sospetti che potessero incrinare la sua idolatria per Hal. I flash back che collegano Frisco alla Grande Mela, il miserabile presente all’età dell’oro (contraffatto) valgono quanto un encefalogramma e tutto dicono della mente sconnessa e bipolare della protagonista. Sulle note di Blue moon, la canzone di quando lei e Hal si conobbero, riarrangiata al pianoforte da Conal Fowkes, la donna migra con i pensieri, la fantasia, il cuore verso un altrove inaccessibile a chiunque altro. E se di Jasmine la sceneggiatura disseziona l’anima, il montaggio dell’immancabile Alisa Lepselter, a colpi di controcampo, e, nella profondità di certe inquadrature, la fotografia di Javier Aguirresarobe, al secondo round alleniano dopo Vicky Cristina Barcelona, infieriscono invece sul corpo isolandolo continuamente ed esasperando la solitudine del personaggio.
Ad allungare le distanze dal resto del cast è, d’altro canto, la stessa Blachett con un’esecuzione magistrale che la indirizza verso il secondo Oscar e la include, di diritto, nel censimento delle più grandi interpreti alleniane: sembra davvero di rivedere la gravità luttuosa di Geraldine Page ma inframmezzata dagli accessi nervosi e istrionici di Diane Keaton. E tale è il carisma dell’attrice che non è così facile accorgersi degli altri e dei loro meriti. Cannavale ci mette il fisico da povero ma bello e si lascia guardare, Dice Clay si presta bene alla macchietta del villanzone e Stuhlbarg, fu a serious man coeniano, a quella, guarda caso, del perdente imbranato, Hawkins contrappunta con discrezione la sorella diegetica ma, onestamente, risulta più a suo agio nei sobborghi londinesi cari a Mike Leigh.
Viene da chiedersi quale surplus avrebbe assegnato la presenza di Woody sullo schermo, ma è un quesito ozioso. Perché, da dietro la macchina e dalla sedia dei suoi settantotto anni, Allen offre l’ennesimo saggio di cinema con la C maiuscola. Blu come la disperazione e come i cieli limpidi e sconfinati di alcune notti di mezza estate.
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