Sono nato a Budapest nel 1905. (…) Già prima dei sette anni ho lavorato, come di norma i bambini poveri di campagna: facevo il guardiano di maiali. (…) Quando avevo nove anni esplose la prima guerra mondiale, le nostre condizioni andarono sempre peggio. (…) Andai a vendere acqua nel cinema Világ. Rubai legna e carbone alla stazione ferroviaria di Ferencváros per poterci scaldare. Costruii girandole di carta per venderle ai bambini che avevano una sorte migliore della mia. Trasportai ceste e pacchi al mercato coperto. E così via. (…) Dopo essere tornato a Budapest mi detti a vendere giornali, a commerciare francobolli, e poi in banconote postali. Durante l’occupazione romena divenni venditore di pane al Caffè Emke. Nel frattempo – dopo aver portato a termine cinque classi di elementari – avevo cominciato a frequentare la scuola borghese. (…) Per una primavera e un’estate m’imbarcai sui rimorchiatori della Compagnia di navigazione marittima Atlantica. In quel periodo superai da privatista l’esame della quarta borghese. (…) L’estate insegnavo a Mezőhegyes in cambio di vitto e alloggio. Portai a termine la sesta ginnasiale con il massimo dei voti, nonostante che, per i disturbi dell’età puberale, avessi a più riprese tentato il suicidio: il fatto è che né allora né in precedenza ebbi mai accanto a me qualcuno in veste di amico consigliere. Erano già apparse le mie poesie. “Nyugat” pubblicò quelle che avevo scritto a diciassette anni. Mi consideravano un ragazzo prodigio, ma ero solo un orfano. Alla fine della sesta lasciai il ginnasio e il collegio, perché nel mio stato di abbandono mi sentivo troppo inerte: non studiavo, bastava la sola spiegazione degli insegnanti perché io sapessi la lezione, ne è testimonianza infatti anche la mia pagella con il massimo dei voti. Andai a fare il guardiano dei campi di granoturco e il bracciante nelle campagne di Kiszombor, poi lavorai come precettore. Infine però, su sollecitazione di due miei cari insegnanti, decisi di fare la maturità. (…) All’epoca ero già stato messo sotto processo per oltraggio alla Divinità in una poesia. La Suprema Corte d’Appello mi assolse. Dopo questo, per un periodo fui rappresentante di libri qui a Budapest e poi, durante l’inflazione, lavorai come impiegato della banca privata di Mauthner. (…) Più tardi la banca fallì. Decisi che sarei diventato definitivamente uno scrittore e che mi sarei procurato un impiego borghese che fosse in legame stretto con la letteratura. (…) Mangiavo alla giornata, mi pagavo l’alloggio con gli onorari che ricevevo per le mie poesie. (…) Quando avevo vent’anni mi spostai a Vienna, mi iscrissi all’università e per vivere mi misi a vendere i giornali all’ingresso del Rathauskeller e a fare le pulizie nei locali degli ospiti dell’Accademia ungherese a Vienna (dormivo in un tugurio atroce, dove non avevo nemmeno un lenzuolo). (…) Ora vivo dei miei scritti. Sono redattore di “Szép Szó”, rivista di letteratura e critica. Oltre che nella mia madrelingua, l’ungherese, leggo e scrivo in francese e in tedesco, sono in grado di tenere la corrispondenza franco-ungherese. Dattilografia perfetta. Sapevo anche stenografare: con un mese di esercizio posso riprendere. Sono pratico di tecnica tipografica, posso esprimermi con proprietà. Mi giudico onesto, ritengo di essere d’intelligenza pronta e tenace nel lavoro.

Attila JózsefEgregio Ministro Fornero, Lei sicuramente conosce Attila József, l’autore di questo testo. Questo testo si intitola Curriculum vitae, ed è stato scritto nella primavera del 1937, ovvero pochi mesi prima che il suo autore finisse schiacciato da un treno. Molto probabilmente suicidio, anche se qualche studioso parla di incidente. Attila József, come Lei sa, è uno dei più importanti poeti del ‘900. Non solo del ‘900 ungherese, perché i grandi poeti sono apolidi, vivono dentro ciascuno di noi, sono al di là dei tempi e delle latitudini. Attila József era figlio di un operaio e di una contadina. Così come Yuri Gagarin era figlio di un falegname e di una contadina. Così come Lei, se le cronache non mentono, proviene da una famiglia di operai. E forse i Suoi genitori, quand’era bambina, Le leggevano le poesie del figlio di operaio Attila József.

Egregio Ministro Fornero, sono convinto che Lei abbia pensato alla biografia di persone come Attila József o John Fante quando ha apostrofato i giovani italiani come troppo choosy (sono dovuto andare sul dizionario, il mio inglese è scolastico, cioè pessimo). Certo, paragonata a quelle precarietà, la nostra precarietà fa ridere. Ed è inutile che Le faccia l’elenco dei lavoretti che ho fatto nella mia vita, o i lavoretti fatti da altri coetanei. L’operatore telefonico da call center, il portapizze, il cassiere, non sono minimamente comparabili al guardiano di maiali, il venditore di girandole di carta o il bracciante di campagna. Loro lavoravano solo per il pane, noi il pane lo abbiamo sempre avuto.

Egregio Ministro Fornero, mi permetta un’espressione triviale (le Sue umili origini le impediranno di storcere il naso): bisogna farsi il culo. Questo mi pare di intendere che Lei volesse dire. Fatevi il culo (si ricordi le Sue umili origini) e sarete ripagati. Perché Lei crede che a ciascuno debba andare secondo il merito. Ed io invece, nonostante non vada più di moda affermarlo, continuo a pensare che a ciascuno debba andare secondo il bisogno. Non va più di moda pensarlo nemmeno a sinistra, almeno in buona parte della sedicente sinistra italiana.

Egregio Ministro, Le dirò di più: io credo che le nostre esistenze non dovrebbero essere fondate sul lavoro. Il lavoro dovrebbe essere uno degli strumenti mediante i quali l’uomo si relaziona a se stesso e agli altri. Il lavoro non può, non deve essere l’unico obiettivo delle nostre esistenze. E non impiegherò più di tre righe per convincerla. Mi dica, Ministro: quando è malata, pensa al Suo lavoro? Quando si ammala una persona a Lei vicina, pensa al Suo lavoro? Quando muore una persona a Lei vicina, pensa al Suo lavoro? Quando fa l’amore, mi dica, pensa al Suo lavoro?

Elsa Fornero

Egregio Ministro, io sono d’accordo con Lei. Sì (si ricordi le Sue umili origini), bisogna farsi il culo. Mi dica, però: per cosa? Per un mutuo? Per un’automobile? Per un tablet, un telefonino? Sa cosa credo, egregio Ministro? Che Lei, chi L’ha preceduta negli ultimi trent’anni e chi molto probabilmente Le succederà, che Voi, insomma, siete come quei professori che riprendono sempre uno studente perché studia poco, non si applica, disturba, non si integra, e sarà bocciato – “sarai bocciato, bocciato, bocciato” gli viene ripetuto quotidianamente (provi a ripeterlo nella Sua testa per un minuto, capirà il meccanismo della goccia cinese). A furia di sentirsi dire che è un caprone, ad uno, infine, spuntano le corna. E se l’unica prospettiva che ha è un muro, sbatterà le corna sul muro. Si chiama “mancanza di prospettiva”.

Egregio Ministro, chiudo, perché Lei ha poco tempo (ha poco tempo perché deve lavorare). Lei vuole che i giovani italiani facciano come Attila József, vigilando maiali, vendendo giornali, pulendo latrine? Bene. Smetta di dire loro che devono vigilare maiali, vendere giornali, pulire latrine, perché la gavetta è gavetta. Dica loro, piuttosto (si ricordi le Sue umili origini): giovani! dovete pulire il culo ai maiali, vendere agli incroci giornalacci, pulire la merda dai cessi delle stazioni, perché quei maiali saranno dati a chi ha fame, quei giornali a chi non sa leggere, quei bagni a chi non ha casa. Capisce? Prospettiva, egregio Ministro. Non oso dirLe utopia (o Utopia). Ma almeno, molto più dimessamente, prospettiva.

Originariamente pubblicato presso: http://nacciluigi.wordpress.com/
Ringraziamo l’autore per la gentile concessione.