“Un giorno mi dovete spiegare cosa vi spinge a vedere cinque date dello stesso tour. E anche quali persone normali fanno due giorni di vacanza in Belgio per andare a vedere un concerto a Colonia”

Bruce SpringsteenQuando mi sento porre quesiti come questo, resto sistematicamente allibita: io non vedo proprio cosa ci sia di strano; piuttosto, mi logoro perché ragioni personali, con le quali non tedierò i nostri piccoli lettori, mi impediscono di assistere a più di quattro concerti di Bruce Springsteen, quest’anno.

Con imperdonabile ritardo sull’inizio del leg europeo del tour di Wrecking Ball, dunque, la vostra intrepida bruceografa e il suo inseparabile marito sono partiti per il concerto di Colonia, tenutosi il 27 maggio.
Questa volta siamo solo lui e io a compiere il viaggio, perché la maggior parte dei nostri amici e conoscenti è già in zona, per assistere alla serata di Francoforte del 25.
Noi siamo stati tracotanti e, al momento di acquistare i biglietti, quando ancora la febbre da tour non era troppo alta, abbiamo avuto la presunzione di poter rinunciare al concerto nella città di Goethe e concederci – a parità di spese in giorni di ferie, pernottamenti e voli – un fine settimana lungo in Belgio, tanto per non fare quelli che vanno a vedere Springsteen nei posti più belli del mondo e conservano il ricordo del solo muro dello stadio.

Alle cinque e dieci del mattino del giorno della partenza mi ricordo in extremis di staccare La Richiesta dalla porta del bagno alla quale è inchiodata, sparpagliando uno sfracello di puntine da disegno sul pavimento dell’ingresso, delle quali mi dimenticherò al nostro ritorno e calpestando le quali provocherò orrendi graffi sul parquet. È tardi, dobbiamo andare da Bruce e il parquet dell’ingresso è l’ultimo dei miei problemi.
Alle cinque e venti, una domanda fa sprofondare l’abitacolo dell’auto nel silenzio sordo che segue le esplosioni: “Amore, perché non abbiamo preso i biglietti per Francoforte?”.
Già, perché?
Per risparmiare, certo, ma non è un buon motivo; perché volevamo vedere qualche bel posto prima di sequestrarci in coda, ma lo stesso non è un buon motivo; perché ci saremmo massacrati di stanchezza a fare tutta quella strada, ed è un buon motivo, ma non ci ha mai fermato; perché non si può fare e avere sempre tutto, ma avremmo potuto rinunciare a qualcos’altro.
La verità è che abbiamo sbagliato o – come dice mia madre, con malcelato disprezzo – ci siamo imborghesiti. Abbiamo voluto fare la vacanza comoda, ridurre gli spostamenti, tenerci dei soldi per pagare l’IMU e abbiamo creduto che un concerto ci sarebbe bastato. Ora, che abbiamo visto le scalette delle serate precedenti e cominciamo a farci un’idea di quello a cui stiamo rinunciando, viaggiamo alla volta di Treviso meno felici di quello che dovremmo essere.

Subito, però, il rammarico per l’errore commesso lascia il posto all’angoscia: un incidente all’altezza di Portogruaro ha causato la chiusura dell’autostrada, e rischiamo di non arrivare in tempo all’aeroporto. Il fan di Springsteen è cieco, ma non è stupido, perciò, di fronte ad un incidente che si presume tanto grave da causare l’interruzione del traffico, si rende conto che il suo problema di voli, alberghi e concerti è poca cosa, ma questo non gli impedisce di vivere nella tensione il viaggio fino al Canova.
In barba al proposito di risparmiare sul parcheggio, lasciando l’auto nel posteggio più distante, ci fermiamo con una manovra degna di un film di John Landis nel buco più vicino all’ingresso delle partenze e corriamo al controllo sicurezza come se fossimo inseguiti dagli zombie.

Dieci minuti dopo siamo al gate, con una buona mezz’ora d’anticipo sull’apertura dell’imbarco e l’impressione di essere due miracolati. Prendiamo un’aspirina, invoco l’anestesista e puntuali decolliamo su un paesaggio da cartolina. Siccome ho una paura nera dell’aereo, cerco di convincermi che il volo sia una bella esperienza ammirando il paesaggio, che si apprezza eccezionalmente grazie alla quota curiosamente bassa alla quale viaggiamo.
Non sarà un po’ troppo bassa?
Se scendiamo ancora un po’ ci restano i panni stesi delle massaie svizzere impigliati nelle ali, ma non ci voglio pensare e mi concentro sulla raffinatezza dei ricami sulle lenzuola.

Il Belgio è un paese ventoso.
Non è ventoso in modo stupefacente per una coppia che vive a Trieste, ma è sufficientemente ventoso da procurarmi una nuova ciocca di capelli bianchi al momento dell’atterraggio.
Ancora sotto choc, bacio la terra appena scesa dalla scaletta e penso che Bruce è proprio un eroe se si sottopone quasi quotidianamente al pericolo e alla tortura psicologica del volo per noi suoi fan, per evangelizzare ogni angolo del pianeta e permetterci di ricevere dappertutto la sua parola. Sfangarsi migliaia di chilometri per ascoltarlo è niente rispetto a quello che lui fa per noi!

La dura vita del Boss

Trascorriamo i due giorni precedenti il concerto come una coppia di innocui turisti, vistando le incantevoli città di Brugge, Gent e Anversa, palesando la nostra italianità assaggiando tutte le birre che ci capitano a tiro e ingozzandoci di patate fritte come se non ci fosse un domani.

Il domani, invece, finalmente arriva.
Domenica 27 maggio, alle nove del mattino, c’è un sole pallido su Colonia, così ci attrezziamo di felpe e mantelle per la pioggia.
Alle undici prendiamo il nostro numero nella coda: quattrocentosedici e quattrocentodiciassette.

La mia vita non ha più senso, mando un paio di messaggi con i quali lascio i miei pochi averi in eredità e aspetto rassegnata la fine della mia esistenza. 
Un sole spavaldo si fa largo fra le nuvole. 

Poco dopo scopriamo che c’è pure una coda apocrifa ad un altro cancello: venti persone scarse che, armate di sdraio e sudoku, attendono già in fila, senza numero. Quando verranno aperti i cancelli, entreranno prima di noi. Sul momento, non è certo un problema: si tratta davvero di pochissimi individui che, a giudicare, dai resti del loro accampamento, sono qui da parecchio tempo e hanno senz’altro diritto ad entrare prima di me. Noi, però, non ci fidiamo della fila apocrifa: concettualmente ci pare scorretta e per giunta non c’è alcuna garanzia che i cancelli vengano aperti contemporaneamente. Non ultimo, la coda ufficiale è all’ombra.

All’appello delle due veniamo suddivisi in gruppi di cinquanta persone e disposti in file parallele ordinate per numero. Il piano è farci entrare nella coda transennata antistante il cancello di ingresso nel preciso ordine nel quale siamo arrivati, a scaglioni di cinquanta spettatori per volta. Mentre prendo parte alla rappresentazione della vigna umana sotto il più caldo sole che la Westfalia ricordi, vedo allungarsi la coda apocrifa e prevedo guai.
Peccato, perché fin qui il sistema stava funzionando alla grande, e saremmo potuti passare alla Storia come la più alta espressione di civiltà dopo l’Atene di Pericle.

Intanto, il soundcheck promette più che bene: Bruce prova E-Street shuffle e Spirit in the night. Più tardi, quando le eseguirà durante il concerto, le commenterà dicendo che sono brani molto vecchi, risalenti a quando noi nel pubblico eravamo bambini, scatenando le proteste di uomini maturi, che ci tengono a mostrarsi fan delle prima ora, e delle donne nate dopo la pubblicazione di Born to Run, che non ci stanno a passare per tardone.
Bruce accenna anche Born in the U.S.A. e No Surrender, che, non essendo delle vere e proprie rarità, entusiasmano meno il pubblico in attesa.

Il sole scalda sempre più e ci procura una bella abbronzatura da ciclisti, ma nessuno, men che meno noi, è minimamente scoraggiato. Dopo alcune ore, durante le quali apprendo dall’oroscopo del Bild, a brandelli sull’asfalto, che è la settimana giusta per concedermi una vacanza e, da un’altra pagina abbandonata poco più in là, che l’erede dei conti di Faber-Castell (quelli delle matite) ha sposato la figlia di un magnate dell’industria turco. Poi, il correttore di bozze che è in me inorridisce alla grafia “nix” per ” nichts” e mi lancio in strepitosa catilinaria contro questo immondo giornalaccio, quando finalmente la coda si muove.
Tutto fila eccezionalmente liscio e varchiamo i cancelli rispettando grossomodo l’ordine di arrivo, senza correre, riuscendo anche a scegliere dove disporci con relativa calma.

Fila tutto talmente bene che quasi quasi mi dispiace che la coda in Italia non sarà organizzata allo stesso modo. Nel frattempo, infatti, ho capito qualcosa di più sulla dinamica della lotteria, che è diversa da quanto supposto in precedenza.
A quanto ho capito ora, verranno distribuiti tagliandi numerati fino all’esaurimento della capacità del pit, ciascun possessore di tagliando verrà dotato di braccialetto per entrare e uscire dal pit e fra essi si sorteggerà il numero a partire dal quale si entrerà nello stadio. Il che significa che tutti coloro che hanno diritto ad accedere al pit hanno effettivamente le stesse possibilità di entrare per primi. Non mi pare un metodo particolarmente equo, ma comprendo l’esigenza di scoraggiare le lunghe file notturne e di scongiurare disordini, e riconosco che questo sistema potrebbe rivelarsi efficace in tal senso. Obiettiva come nessuno, mi riservo di gridare al miracolo o denunciare il sopruso a seconda della posizione che mi toccherà.

Qui a Colonia, intanto, optiamo per la pedana laterale destra, presso la quale è ancora disponibile la seconda fila.

Sebbene, visto dal di fuori, appaia come una bolgia infernale (e talvolta anche vissuto dal di dentro non se ne discosti molto), il pit non è poi un luogo così caotico e disordinato.

Per coloro che si sono persi le puntate precedenti, sia detto che il pit è quella sezione di parterre – troppo piccola per chi ne è escluso, troppo grande per chi vi ha accesso – separata dal resto dell’area, situata sotto il palco; l’unica – essendo il resto del prato diviso da una transenna metallica – nella quale c’è una minima speranza di interagire con Bruce e da dove si gode maggiormente della partecipazione al concerto. Il fan punta al pit, fuori dal pit si è spettatori qualsiasi.
Regna all’interno di esso un saldo equilibrio dinamico, dato da forze contrapposte, ma equivalenti, grazie alle quali, per quanto strano possa apparire, non è inconsueto mantenere la posizione in cui ci si colloca inizialmente.
Chi occupa le file dietro, infatti, cerca di penetrare in avanti; gli spettatori delle file davanti, ovviamente, sono fermamente decisi a non cedere il posto e ne ostruiscono l’avanzata. Qua e là, incauti movimenti laterali “a biliardino”, volti a non farsi superare lateralmente, scoprono qualche passaggio e permettono ad alcuni di insinuarsi, ma in linea di massima l’assetto complessivo non ne risente. In questo modo, nonostante l’altissimo dispendio di energie da parte dei fan che sono riusciti ad accedervi – impegnati contemporaneamente in attacco, difesa ed elaborazione di strategie controffensive –, ci si ritrova praticamente immobili.

Per le prime due ore, circa, riusciamo addirittura a stare seduti; non dico “comodi”, ma seduti, il che, anche se adesso ci sta facendo le chiappe quadrate, in futuro ci tornerà utile.
Quello dietro di noi fuma come una ciminiera, ma siamo all’aperto e non posso certo lamentarmi, anche perché è visibilmente intendo a disperdere il fumo il prima possibile. Del resto, siamo poco distanti dalla transenna e non manca molto all’inizio del concerto, non posso biasimarlo se è nervoso; però, potrebbe offrire!

Davanti a noi ci sono tre coppie che non hanno pace: si sono conosciuti in coda, hanno socializzato, si scambiano biglietti da visita e si fanno foto.
Mentre questi squinternati godono tranquillamente della nostra stupida onestà, scambiandosi di posto con leggerezza mai vista, noi siamo impegnati in una partita a scacchi con tutto il resto del pubblico, che tenta di passarci dappertutto e ci tormenta di appoggini.
L’appoggino è quella pratica, per la quale io darei cinque anni di galera, in cui “quello dietro” si appoggia comodamente su “quello davanti”, il quale, disturbato dal contatto o non disposto a sorreggere il peso, si sposta e si riassesta sempre un po’ più in là, perdendo, di fatto, la posizione, che viene gradatamente occupata dal disonesto alle sue spalle. Un giorno mi porterò un tubo di Gentalin e mi farò spalmare in mezzo al pit lamentando ad alta voce di fastidiose pustole infettive, e allora vedremo se mi faranno ancora gli appoggini.

In tutto questo trambusto, i nostri eroi si sono dimenticati La Richiesta in albergo.
Per coloro che sono troppo pigri per risalire a cosa sia La Richiesta, sia detto che è un segno con il quale il fan mira a convincere Bruce ad eseguire il brano desiderato. In genere è un semplice cartello di cartone con la scritta a pennarello, ma non mancano immagini più articolate, dipinti, collage, bandiere, pupazzi e dispositivi luminosi. A Vienna, nel 2009, aveva funzionato benissimo la t-shirt di una ragazza, che ottenne quella che è tutt’ora l’unica esecuzione europea di Jersey Girl (togliendosela).

Tento di far arrivare la mia richiesta a Bruce via Twitter, sperando che il curatore del suo account ufficiale si prenda la briga di riferire. Come si evince dalla scaletta della serata, non se l’è presa, ma io non demordo e intendo ripresentare la medesima richiesta ai concerti a venire. Certo, se mi portassi dietro il cartello sarebbe più facile, ma non disdegno la collaborazione di voi, nostri Piccoli Lettori[1].

Il concerto è stato – come facilmente prevedibile – strepitoso. “Wünderschön! Unglaublich!”, come ho detto la mattina successiva all’albergatore, che non si capacitava del fatto che arrivassimo dall’Italia per vedere Springsteen, ma che poi ha riconosciuto che anche una coppia di ospiti francesi erano lì per la la medesima ragione.

Bruce Springsteen a Colonia

Oltre alle perle del soundcheck, Bruce apporta diverse modifiche alla scaletta e ci “regala” (se di regalo si può parlare con tutti gli sforzi che ci costa!) altri brani amatissimi, come The ties that bind, Atlantic City e American Land. Più di quel che “ha fatto” ricorderò la bellezza di questo concerto per quello che “non ha fatto”: per la prima volta, a mia memoria, dopo dieci anni, ha tolto dalla scaletta Lonesome Day, ci ha risparmiato Badlands – classicone più che apprezzabile, per il quale, però, i tedeschi hanno una passione smodata e in corrispondenza della cui esecuzione ho sempre preso un fracco di legnate – e non ha suonato Rocky Ground, brano tratto dall’ultimo disco che stava resistendo in scaletta da un po’ e che, a sentire i commenti di coloro che avevano assistito agli spettacoli precedenti, ha un’ottima resa dal vivo, ma che a me ancora non va giù. Al loro posto, brani suonati comunque di frequente, ma maggiormente di mio gusto, come She’s the one, The River e Night.
Bruce pesca a piene mani anche da Born in the U.S.A, di cui suona quattro brani, ivi inclusa la title-track, che proprio mi distrugge. Mi distrugge non nel senso che non ne posso più di sentirla suonare, a scapito di canzoni più belle che comincio a temere di non sentire mai dal vivo, ma nel senso più stretto e materiale dell’espressione, perché durante l’esecuzione una delle casse ha iniziato a vibrare in maniera molesta procurandomi mal d’orecchie e la sgradevole sensazione di riverbero nella cassa toracica.

Per fortuna, poi, ha fatto Born to run.
Io, a volte, penso che Born to run sia la canzone più bella del mondo. Di solito penso che sia Thunder Road (grande assente della serata), ma se penso al respiro di Born to run, davvero non riesco a capire come non sia la canzone preferita del mondo intero. Quando Bruce suona Born to run passa tutto. Sul serio: è terapeutica. Passa il mal di schiena, passa il mal d’orecchie, passa la sete, passano le pene d’amore, passano le preoccupazioni economiche, passano i timori per il futuro; per i cinque minuti in cui si assite a Born to run dal vivo, la promessa di felicità e d’amore della canzone appare possibile: è speranza ed energia alla portata di ognuno.

La magia di Springsteen, probabilmente, risiede proprio in questo: nella possibilità di vivere, come al cinema, emozioni vicarie, che la vita quotidiana altrimenti ci negherebbe, in maniera per giunta non pericolosa. Assistere a un concerto significa vivere le emozioni trasmesse dalle sue storie – la maggior parte delle sue canzoni sono altamente narrative – in maniera amplificata, “ricevendo” il messaggio anche attraverso il canale visivo, al quale si è notoriamente più inclini a “credere”. Non più, dunque, una storia incisa su un disco, ma un vero un narratore che la riporta e la trasmette, facendola rivivere ogni sera, aumentandone la croyance.
Da qui, ritengo, l’impulso, di chi sta nelle prime file, di toccare l’artista. Non tanto per lo sciocco trofeo di “aver dato la mano a Bruce” (cosa della quale, comunque, non smetterò mai di vantarmi), bensì per arricchire l’esperienza attraverso un nuovo senso, al fine di aumentarne l’impressione di realtà, di legittimare, attraverso la corporeità, la propria fede nella “diegesi”, negando alla storia cantata lo statuto di illusione proprio attraverso la constatazione della materialità del narratore.
Arrivare a toccare Bruce significa, dunque, completare l’esperienza, tornare a casa con l’animo sereno di chi ha fatto del suo meglio per vivere l’evento, trarne il massimo e non avere “occasioni perse” da rimproverarsi.
E poi, diamine, è bono da morì, non è che se si ferma e ci dà un bacino ci tiriamo indietro.

Già, perché, chi più chi meno, abbiamo tutti– uomini, donne, omosessuali, giovani, anziani, bambini e badanti– una cotta adolescenziale per questo attempato tappetto che suda l’equivalente di una piscina olimpionica ogni sera, e faremmo di tutto per farci notare da lui.
Springsteen è, dal punto di vista psicologico ed emotivo, una presenza reale nella vita dei suoi fan. Come la fine di una relazione è dolorosa perché è insopportabile l’idea di non far più parte della vita di una persona che, invece, a livello sentimentale fa ancora parte della nostra, così è forte nello springsteeniano il desiderio di essere riconosciuto da Bruce, di manifestare la propria esistenza e irrompere per un istante in quella del proprio “amato” e sentirsi– al colmo dell’illusione– per un folle, fugace momento ricambiato.

Me lo consumano!

Dunque ora mi scuserete: tra pochi giorni Bruce viene a prendermi e devo proprio andare a prepararmi.