La stagione delle girls band, notoriamente esplosa con il punk e il suo figliare, è stata stracciata, poi si è fatta trasandata, ed infine si è ridimensionata in un habitus fisico emaciato ed in alcune sonorità che, del vecchio disastro, conservano al massimo l’imprinting lo-fi, nella maggior parte dei casi.
Rimpiangere il reggae metropolitano delle Slits, rileggere lo stilema funk delle Au Pairs, interrogarsi sul fascino colto delle Essential Logic può essere un gioco al massacro, se spinto alla disperata ricerca di un tracciato su cui modellare la propria identità che, spesso, diventa un mostro da riflusso. La realtà del post-millenarismo è ben più frugale, per non dire misera, e non (r)esiste una fiammata così imponente e verticale come quella di un tempo d’androginia perfetta e nervosa, di sdrammatizzazione fallocentrica, di rimescolamenti metallici e conturbanti. Resta da ascoltare e cercare un’affinità elettiva che sia capace di trascendere il fenomeno e spingersi oltre la coltre di una circostanza irripetibile, con la capacità di essere a prescindere dal passato.
Il trucco è andare oltre, e iniziare a navigare anche nel mare magnum successivo dello shoegaze, temperando il tutto con vocalità eteree, fragilità di fondo, imperfezioni accattivanti colte in alcune declinazioni dell’indie-pop americano ‘90s.
Questo potrebbe essere il biglietto da visita per tre ragazze di Brooklyn, Cassie Ramone (chitarra, voce), Frankie Rose (batteria, voce) e Kickball Katy (basso, voce), le Vivian Girls che, nel 2007, munite di cd-r, iniziano a bazzicare il circuito In The Red, sino alla seduzione definitiva sancita, nel 2008, dalla ristampa per la stessa etichetta del primo album omonimo, oltre che dalla presenza della nuova batterista, Ali Koehler. Come è ragionevole immaginare, di nuovo, inusitato e sconvolgente c’è ben poco. Ma gettare via il bambino con l’acqua sporca sarebbe anche atto di gratuito snobismo, aguzzando bene le orecchie. L’organico è forte, Cassie non si risparmia, malgrado il tono nasale, Katy sa quello che fa e Ali pesta senza indugi. Il risultato è un lavoro che si avviluppa intorno a chitarre sveltissime e pulviscoli pop che restituiscono una densità sonora ben capace di guardarsi indietro senza cristallizzazioni di sorta. L’ex voto al gineceo femminile di cui sopra è compiuto e, insieme con questo, anche la gioia di poter rispolverare qualche vecchio vinile di Jesus and Mary Chain and co.
L’idillio con la In The Red dura ancora un anno, e nel 2009 esce Everything Was Wrong. Appartenere alla stessa etichetta di Black Lips, Jay Reatard, Dirtbombs, Jon Spencer Blues Explosion – solo per citarne alcuni – significa dover fare i conti con una certa esigenza di ruvidezza: ogni anelito a un qualche vapore più tenue va soffocato sul nascere, per non rinunciare a un dna che si richiede noise, prima che pop. A questo giro, ancora tanta bassa fedeltà e qualche cattiva intenzione.
Evidentemente stanche di un “dover essere” e forse più consapevoli delle proprie tensioni ed ambizioni, le ragazze iniziano a guardarsi intorno e ad aprirsi.
Il 2011 è ancora anno di cambiamenti: Ali lascia la batteria a Fiona Campbell e la In The Red viene salutata per la Polyvinyl (etichetta, tra gli altri, degli Of Montreal).
Finalmente il letto di chiodi del lo-fi e il cuscino di spine del noise possono essere messi da parte, per giocare con balocchi più soffici e raffinati, custoditi nel nuovo baule che reca scritto Share The Joy.
I punti di riferimento diventano persino il garage pop 60’s delle Shangri-Las (Take It As It Comes), le schitarrate selvagge lasciano il posto ad una più disciplinata cascata dreamy (The Other Girls), l’armonia regna sovrana anche sulla possibile danza (Dance (If You Wanna)), qualche volta si invoca nonna Nancy Sinatra a dare il benestare alle proprie leziosità (Sixteen Ways) e un tentativo d’oscurità evanescente si insinua, infine, in Light in Your Eyes, dall’intro sussurrato con la fallimentare volontà di somigliare ad una possibile Elizabeth Fraser.
Meglio prima o dopo? Verrebbe da rispondere: “Dipende dai punti di vista”. Tuttavia è necessaria una considerazione oggettiva, che, prescindendo dall’inclinazione personale, lascia un retrogusto perplesso e il dubbio di un vagare per prove ed errori. La sensazione è quella di un indugio piuttosto marcato, con il rischio di perdersi in una gigantesca nuvola di zucchero filato e in un maquillage che dall’acqua e sapone di Marsiglia dell’antico ed ingenuo rumorismo possa trasformarsi in un’indigestione lollipop. In fondo, speriamo non accada.
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