Ci incontriamo a cena (credo, non ricordo bene un inizio spazio-temporale). Lui è in qualche modo “volgare”, non parla di letteratura, né di politica. La tavola è semplice, semplicemente preparata, poche cose. Ogni tanto lui fa qualche battuta “fisica”, “omosessuale”, anche verso di me. Io sono stupito, attento, tutto sconquassato dalle sensazioni della serata: dal fatto di conoscerlo, vederlo, sentirlo nella sua fisicità, di fronte a me. La comunicazione è solo d’occhi, di gesti. Ogni tanto rialzo la testa ed incrocio i suoi occhi: ha uno sguardo che seduce, che circuisce, coinvolge. Io mi schermisco: lui lo nota. Sento il suo desiderio fisico addosso, ma è come se dai suoi occhi uscisse molto meno di ciò che in effetti potrebbe uscire. E tutto ciò che non esce, lui lo decide. Siamo a casa sua. Si mangia, si beve: intorno più di trenta persone. Moltissimi giovani, ragazzi e ragazze intorno ai venticinque anni. C’è anche R. : siede vicino a me, non proprio accanto. La casa è piena di quadri, probabilmente suoi; tra tutti i colori prevalgono il nero e l’azzurro. Le persone attorno a lui lo trattano apparentemente come un loro pari. Lo chiamano “Paolo” o “Pier Paolo”. Il suo viso non è più quello del Pasolini giovane, ma è ancora giovanile, come appare nelle foto degli ultimi anni sessanta: bello e non ancora scavato. Ad un certo punto si esce. Perdiamo di vista tutti i commensali. Pier Paolo cammina di fronte a noi, velocissimo; noi lo seguiamo a dieci, quindici passi con fatica e, malgrado stiamo quasi correndo, ogni tanto lo perdiamo. Poi lui riappare nella folla. Le strade sono colme di gente. Il vocio dialettale è intensissimo: ogni tanto vedo una faccia. Sembra quasi una fotografia d’epoca. Siamo in borgata, a Roma, o almeno nel modo in cui io mi immagino la borgata. Camminando non si volta mai: taglia l’aria.

Non so come, vedo i suoi occhi. Sono diafani. (La cosa strana è che tutti e due sappiamo che è morto. Anche lui lo sa. Eppure c’è. Sta in mezzo a noi. Ma è lui che decide il cammino, come quando usciamo per strada. Lui decide, crea il contesto, anche il contorno; suoi sono amici, compagni, ambienti, sfondi. Lui è già morto e tutti sembrano tacitamente accettare questo fatto come naturale. Siamo noi nel suo mondo e lui ci sta concedendo del tempo — inespresso esistente). Ci ritroviamo in un bar, un bar di periferia. Lui conosce tutti. Non so come, attraverso quali sguardi, quali parole, ci ritroviamo in una stanza. Forse il retrobottega. Io e lui. Soli. Vuole fare l’amore, prendermi. I baci sono caldi, ma impazienti. Gli dico di far piano, di andare piano. Trattiene a stento un motto di impazienza, poi si gira. Entrano altri ragazzi. Si spogliano. Comincia un atto sessuale di gruppo. Qualcuno glielo prende in bocca. Lo vedo perché è più in alto, come su una sedia. Mani di giovani ragazzi lo toccano, l’accarezzano, quasi lo graffiano sui glutei, sulla schiena, sul viso, sulle cosce. Uno di loro è ricciolo. Nessuno biondo. La scena si svolge con grande velocità; non riesco a decidere se entrarvi o no. Resto immobile, imbambolato. L’eccitazione aumenta. Vorrei chiamarlo. Lui ha gli occhi chiusi. Viene. Vengono. Lo chiamo con una voce dolce, la più dolce che mi viene. Allungo una mano verso di lui: “Pier Paolo”. Mi esce più dolce. Lui stringe solo un po’ di più gli occhi. Forse potrebbe piangere, ma non lo fa. Mi guardo: sono venuto anch’io. Senza neppure accorgermi d’aver avuto un’erezione. Schizzi di sperma.

( Tempo dopo ). Io e R. in macchina. A Roma. Ci sono dei lavori in corso e i vigili deviano il traffico. Uno di loro, in divisa, colla barba, ci dice, con un tono tra commesso e guida turistica, di andare dritto all’incrocio successivo, che già vediamo. “A destra non c’è nulla di interessante” dice lui. Lo ripete un paio di volte. A destra c’è la casa di Pier Paolo. Siamo nel novanta adesso. Andiamo a destra. Ci fermiamo davanti alla casa. Non parliamo con nessuno. Tutti sanno di Pier Paolo lì, che c’è, in qualche modo che mi sfugge. È morto. Una macchina ci ha seguito sfidando i consigli del vigile. Due ragazze. Arrivate sotto la casa, suonano ritmicamente il campanello “P.P.P.”. Ridono come due sceme. Si apre un’imposta della casa. Una vecchia signora guarda stupita le ragazze.
(Pisa, giugno — luglio 1995)