Il palcoscenico è in penombra. La scenografia è scarna, essenziale, giusto alcuni drappi color porpora, a ricordarci che siamo pur sempre in un teatro. In lontananza i musicisti, pochi, solo tre o quattro. Ed eccolo arrivare, leggero-etereo come sempre, la gran massa di riccioli disordinati e un modo di camminare che sembra tanto impalpabile da rifiutare il contatto con il pavimento: canta “Indiani”, ballata rarefatta su un popolo in via d’estinzione.
Ed è il ripetersi di un rito che da svariati anni si consuma felice celebrando la purezza artistica di un incantatore delle sette note, immune dalle mode o dalle influenze angloamericane, casomai a volte ripiegato su se stesso, mai comunque banale, ripetitivo o “furbo”, né compiaciuto…
Quello che con abusata definizione viene additato come “menestrello della musica leggera italiana” di musica (appunto) ne ha obiettivamente assaggiata parecchia. Diplomato in violino al Conservatorio di Genova, città dove ha speso buona parte della sua infanzia (e al capoluogo ligure, all’odore del mare e al fascino proibito dei suoi vicoli ha dedicato un brano pulsante e reminiscente come “Forte”), Branduardi ha però nelle vene sangue lombardo: vicino a Milano, a Cuggiono, è infatti nato nel 1950.
Dopo il suddetto diploma si inserisce subito nel mondo della musica: è duttile, sensibilissimo, incredibilmente ricettivo. Soprattutto è avido di esperienze artistiche, poco importa se una settimana viene convocato per suonare in un quartetto d’archi e quella seguente per esibirsi da solo: è tutta acqua al suo mulino, un mulino che Branduardi vede macinare a pieno ritmo ancora oggi.
Il Sessantotto lo coglie turbato e impreparato. Si iscrive alla Statale di Milano, ma i primi contatti sono infelici: “Mi chiesi esterrefatto: ma che schifo è questo?! Io venivo da un ambiente conservatore, e lì trovai un estremismo, una violenza, un o tutto o niente che mi lasciarono annichilito: nella musica è vero proprio il contrario…”.
Ed è proprio in conseguenza di questa delusione giovanile che Branduardi si dedica con maggiore accanimento allo studio delle sue passioni. Sempre diciottenne si ritrova a mettere in musica un poema di Sergej Esenin (“Confessioni di un malandrino”), brano che poi riapparirà, rielaborato, nel suo album di debutto del 1974, operazione filologica rara in Italia, pari forse solo a certe contaminazioni realizzate da Fabrizio De André su testi di Cecco Angiolieri e, più avanti, sull’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.
Si tratta del primo scalino di Branduardi verso una propria identità artistica, lontana dai canoni cantautoriali dell’epoca, decisamente indirizzati verso la canzone di protesta o, ad un livello più basso, verso tentativi di italianizzazione delle mode musicali di marca inglese.
Branduardi ha più volte raccontato del suo amore per Bob Dylan (passaggio obbligato per quelli della sua generazione), ma anche del suo commosso stupore per le stupende ballate del britannico Donovan, vessillo del Flower-Power e cantore della pace universale, in un’epoca di rancore e impulsività. Anche Joan Baez e i Genesis lo interessano, artisti così diversi tra loro, chi impegnato in un’analisi sociale rigorosa, chi all’inseguimento di sogni, di fiabe, di dimensioni fantastiche.
L’accumulo su accumulo di esperienze all’interno della musica classica viene spezzato nel 1973, quando Angelo Branduardi consegna ai dirigenti della RCA un provino con diversi brani già fatti e finiti. Il risultato è positivo ed è dell’anno seguente l’opera di debutto: “La Luna”.
Il brano omonimo è un classico della scrittura armonica branduardiana: poche semplici pennellate intimiste, il racconto fantastico di un pianeta ideale, dove gli animali, gli oggetti, le piante e persino i satelliti hanno diritto di parola e di sentimento. Di quel lavoro vorrei ricordare “Notturno”, “Storia di mio figlio”, “Gli alberi sono alti” e “Rifluisce il fiume”, già sintomatici di un sicuro talento di ricercatore delle tradizioni popolari, agganciate a una sensibilità sincera, vergine, onestamente “ingenua”.
Sono di quel periodo le prime partecipazioni di Angelo Branduardi a concerti, happenings e manifestazioni collettive, come un famoso spettacolo a Villa Phampili a Roma, o un commovente tributo a Demetrio Stratos degli Area (deceduto nel 1979 per una grave forma di leucemia), spettacolo per il quale si diedero ritrovo decine di cantautori italiani.
Del 1975 è il secondo lavoro discografico, semplicemente intitolato con nome e cognome dell’autore, disco in cui il suo discorso musicale si precisa. La vera consacrazione artistica è comunque datata 1976, quando Branduardi è protagonista di un clamoroso exploit discografico intitolato “Alla fiera dell’est”: canzone e annesso 33 giri conquistano la cima delle classifiche. Il premio della critica musicale italiana è suo, anche i più refrattari a simili suggestioni si lasciano incantare e i giornali avvicinano l’obbiettivo sul taciturno cantastorie immune dalle lusinghe del music business. Il disco è un piccolo diamante dalle mille sfaccettature, dove si rimpiange e si evoca una latitudine perduta, scrigno di sentimenti idealizzati eppure non stucchevoli.
Il rapporto tra uomini e animali fa da sfondo a “Il dono del cervo”, dove la favola narrata contiene un sottotesto morale, lampante, esplicito: la generosità degli animali non arretra nemmeno davanti all’imminente morte, per mano dell’ottuso potere umano. La loro personale scala di valori è nobile e immacolata: siamo aldilà di una politica puramente animalista. Forse è la constatazione di come va il mondo, di come spesso e volentieri il bene dell’intelletto produca sfaceli.
Se nella struggente “Canzone del rimpianto” affiorano alcuni amori letterari di Branduardi (certa poesia esistenzialista, il recupero di suggestioni mutuate dallo studio della filosofia), la filastrocca della “Serie dei numeri” non è che la prima di molte incursioni branduardiane nell’emisfero infantile.
Solo un anno d’attesa ed è di nuovo capolavoro con una delle opere più felicemente ispirate e omogenee di Angelo Branduardi: quella “Pulce d’Acqua” che tuttora non accenna a diminuire di popolarità in Francia e Belgio (e sono passati vent’anni).
Come di consueto, in cartellone quotidiane cronache di vita animale (“La lepre nella luna”, “La pulce d’acqua”), epopee imperiali ormai dissolte (“Il poeta di corte”), autointerrogazioni sui ritmi con cui biologicamente è ordinata la natura (“Il ciliegio”, “Nascita di un lago”); ma forse l’assetto più stimolante proviene dall’affiancarsi a tematiche inerenti la Morte e il Mito, anche se poi a confrontarsi con la metafisica è, in ultima analisi, sempre l’uomo comune. Esemplare in questo senso “Ballo in fa diesis minore” (tuttora in scaletta ad ogni tournée del musicista lombardo).
Proprio in questa fase artistica si situa il primo contatto con il pubblico estero, viene coniata la definizione “rock paysan” (rock paesano) per definire una musica indefinibile, ma potenzialmente capace di valicare le frontiere, si susseguono le richieste di far viva presenza sui palcoscenici di Francia, Belgio e Germania e a concretizzare questi rapporti ci pensa David Zard, scopritore e produttore di Angelo Branduardi, nonché noto organizzatore di eventi rock.
All’estero Branduardi presenta buona metà del suo repertorio nella lingua originale del paese che lo ospita: un segno di rispetto verso il pubblico non indifferente. La resa emozionale delle tappe estere supera ogni più rosea previsione: ovunque è sold out, con diretto coinvolgimento degli spettatori, dimentichi di ogni inibizione e pronti a ballare sulle poltroncine. A dicembre ’78, in Germania, una sera lo spleen è talmente forte da far sciogliere in lacrime Branduardi e i musicisti tutti.
Lui conclude inesorabilmente i suoi concerti con il superclassico “La Luna”,al termine del quale una pioggia di neve artificiale scende a suggellare un patto di reciproca fratellanza tra spettatori e orchestrali.
Il tema dell’infanzia (crisalide dalla brevissima vita, poi sempre rimpianta durante la “fase adulta”) è al centro del successivo album “Cogli la prima mela”, dalla copertina verde già sintomatica: due bambini in procinto di scavalcare una staccionata, davanti alla quale si profila il mondo dei grandi, molto meno spensierato del prato di casa, con quel tavolino da pic-nic e le coppette di gelato ancora intatte. “Cogli la prima mela” è poesia ininterrotta dalla prima all’ultima nota: una preghiera di ringraziamento per la persona amata (“Se tu sei cielo”), il magico emisfero femminile nei suoi lati d’ombra (“La strega”), il richiamo alla beata abitudine sentimentale di disegnare il volto di chi si ama sulla sabbia (“Colori”), più l’apologo arcano e inquietante del “Signore di Baux”, retaggio della giovinezza di Branduardi (“Da giovane visitai mezza Europa in autostop: ricordo con vivo stupore il maniero di Baux, isolato dal mondo civile a causa delle maree: nella mia canzone ne ho fatto un desolato monumento al potere”).
Di questo periodo è anche la celebre collaborazione con Roberto Vecchioni, che per l’intervento di violino in “Samarcanda” chiama proprio Angelo: l’incontro, durevole in termini d’amicizia, di due cantautori estremamente diversi tra loro.
Pienamente soddisfatto della sua attività concertistica, Branduardi “blocca” il feeling dei suoi live acts, dando alle stampe un triplo (addirittura) album dal vivo, “Concerto”: in quasi tre ore di grande musica scorre un repertorio variegato ed emozionante, riletto nei suoi capitoli fondamentali da un inedito entusiasmo esistenziale. Invitato al Festival Interceltico di Lorian (dove suona accanto al bretone Alan Stivell), Branduardi confeziona un nuovo disco di inediti nel 1981, intitolato con il suo nome, disco che si apre con la programmatica “Musica”: una sorta di ringraziamento al pubblico per due stagioni indimenticabili, e nel contempo omaggio alla musica tout-court.
Dietro gli episodi intimisti di “Barche di carta” e “La Collina del sonno” affiora già un’inquietudine, il desiderio di manipolare assortitamente e diversamente le redini di una carriera già bella e baciata dal sole. La tournée di supporto all’album si trasforma in una grande festa collettiva (“E Festa si farà”, sta scritto sui palloncini colorati che Angelo lascia cadere sul pubblico a metà esibizione), e i bagni di folla sono oramai una felice consuetudine.
Desiderio di nuove esperienze e un’innata curiosità trasportano Angelo Branduardi verso il sentiero della musica da film; l’interessamento di Luigi Magni (regista specializzato in pellicole di rievocazione storica) lo porta ad essere inserito nel cast del suo nuovo film “State buoni se potete” (1983), che narra la storia di Filippo Neri, ex allievo di Savonarola, che nell’Italia del XVI secolo si prende cura dell’infanzia abbandonata. Branduardi si ritaglia nel film il ruolo di Spiridione, maestro di musica dei ragazzi, oltre naturalmente a scrivere le partiture per la pellicola.
Di pochi mesi successiva è la pubblicazione del nuovo album “Cercando l’oro”, bellissimo disco-apologo sulle chimere inseguite dagli uomini, che spesso e volentieri si allontanano dalle radici, immuni al pensiero di Vasco Pratolini che soleva dire: “L’avventura più avventurosa comincia dal giardino di casa propria”.
Il tema dei sogni fittizi e fantastici che azzerano il raziocinio e l’obiettività è al centro di quasi tutte le canzoni del disco, e se nel brano del titolo ci si rifà alla inebriante esperienza dei pionieri, lanciati verso le sorgenti americane, alla ricerca del “biondo metallo”, ne “L’isola” si narra proprio della fatidica isola deserta, approdo ideale e benedetto per tutte le anime fragili provate dalle bufere della vita.
Ma anche “Il Marinaio” è una storia di “luoghi d’acqua”, dove ritorna l’antico tema dell’interminabile attesa di Penelope nei confronti di Ulisse, anche se il richiamo letterario non è esplicitato. Sempre di lunghe attese si narra in “Natale”, dove un non meglio specificato protagonista maschile preannuncia il suo imminente ritorno a casa: qui il lirismo di Branduardi tocca vette eccelse (“polvere e vento con se lui porterà, profumo di terre lontane… chissà oltre il mare quante cose ha lasciato, e tu che hai soltanto aspettato…”)
A ridosso di una prova discografica così pienamente riuscita, Angelo Branduardi si occupa di alcune collaborazioni eccellenti, che non mancheranno di “seminare” germogli futuri: da una acclamata partecipazione al “Premio Tenco”, creato dal “grande vecchio” del cantautorato italiano Amilcare Rambaldi, alla preziosa realizzazione di una antologia (“Canzoni d’amore”, 1984), i cui proventi vengono interamente devoluti all’UNICEF. Per l’occasione il musicista lombardo compone un pregevole inedito, il “Tema di Leonetta”.
Semplicemente sensazionale è, poi, il futuro progetto discografico. Oltre ad essere un formidabile “ascoltatore” della musica altrui, Angelo coltiva da sempre la passione per la poesia inglese; ed é proprio da alcuni sublimi poemi dell’irlandese William Butler Yeats, che prende il via l’ambiziosa idea di creare un nuovo album su liriche, appunto, dell’autore de “I Cigni di Coole”. Nonostante le iniziali renitenze degli eredi dello scrittore, Branduardi ottiene in un secondo momento piena fiducia e firma così uno dei capitoli più incisivi della sua discografia.
Se l’assetto dei musicisti è insolitamente ridotto (il fidato Maurizio Fabrizio alle “controchitarre”, un maestro delle percussioni come il brasiliano Papete, e Angelo stesso), la musica sembra nascere dai boschi e dalle praterie così dolcemente evocate da Yeats: i suoi racconti di aviatori irlandesi in volo di picchiata verso la morte e le sue storie d’amore color argento e alabastro, non faticano affatto a fondersi con le soavi, ascetiche melodie branduardiane. Un vero e proprio lavoro da “bottega rinascimentale”, reso ancor più rarefatto nella versione in Compact Disc.
“Branduardi canta Yeats” (questo il titolo del disco) è un lavoro che taglia a metà quei fragorosi e inconcludenti Anni Ottanta, non solo perché esce negli ultimi mesi del 1985, ma anche per il suo fare a pugni con l’attitudine musicale del periodo, improntata ad uno smodato uso dei sintetizzatori e ad un fastidioso edonismo di facciata.
Sono anni, per Branduardi, di ricerca musicale appassionata; eppure si tratta anche di un’epoca di notevoli difficoltà a livello di contratti discografici. In special modo un cambio d’etichetta (finora Angelo ha sempre inciso per la multinazionale Polydor), gli procura non pochi problemi e ridimensiona il suo lavoro fino a questo momento costante.
Musicalmente il “nuovo” Branduardi si segnala per la sopraccitata tendenza al “minimalismo sonoro”. Proprio lui, che ha girato il mondo accompagnato da formazioni più che assortite, opta per una rielaborazione in chiave intimista della propria musica: “Fu un momento particolare, in cui decisi di procedere per sottrazione: una mia fissa che forse un po’ mi ha preso la mano…”.
Primo capitolo di questo nuovo corso è “Pane e Rose”, dove l’influenza della musica etnica appare evidente in tracce quali “Frutta”, dove pare di essere in un mercato di compravendita del Brasile… Un Branduardi che smentisce la ritrita definizione di menestrello appare anche in “Primo Aprile 1965”, tratto da una lettera di Ernesto Che Guevara ai suoi genitori, brano commosso e riflessivo con un preciso connotato ideologico. Si tratta infatti di un’ode solitaria alla ragione degli istinti: se personaggi determinati e risoluti come Guevara non fossero comparsi sulla faccia della terra, non solo la memoria storica sarebbe stata monca, ma anche la psicologia degli uomini ne avrebbe risentito. C’è bisogno, insomma, di persone che traccino la via, perché chi viene dopo possa trovare terreno fertile su cui agire. E c’é ancora posto per un inedito e ironico assoggettamento alle temute macchine del suono: “Primo della classe”, una storia d’emarginazione infantile condotta da un indiavolato ritmo al Matrisequencer.
A proposito del suo infinito interesse per le mille possibilità della musica, in un’intervista al mensile specializzato “Buscadero”, Branduardi rivela : “Non ho mai posto steccati alle mie curiosità di ascoltatore: recentemente ho rilevato da un privato una collezione di dischi dell’UNESCO, che per me è una fonte infinita di ispirazione. Io non resisto più di cinque minuti al suono dei flauti della Melanesia. Ascolto coscientemente e incoscientemente queste cose, poi mi capita di rielaborarle secondo i sistemi armonici che conosco; non mi considero un docente della musica, semmai uno studioso, un appassionato: ho tenuto anche delle lezioni, all’Università di Avignone”.
Se le “zone alte” delle classifiche sono un lontano ricordo per Branduardi (che dal canto suo non sembra sentirne la mancanza), sono sempre più numerose le richieste di lavoro provenienti da oltreconfine.
Per la Germania Branduardi lavora alla colonna sonora del film-fiaba “Momo” e nel 1988 ritorna al fianco del regista Luigi Magni per firmare le partiture de “Secondo Ponzio Pilato”, con Giancarlo Giannini, Stefania Sandrelli e Nino Manfredi. Anche il film-documentario entra nel carnet di Branduardi, grazie ad interessamenti esteri.
La “stagione minimalista” si chiude con un album bello e incompreso: “Il Ladro” (1990), dove, dietro l’inquietante titolo (che allude un po’ a tutto il genere umano, “rapinatore” di sentimenti così come di esperienze di situazioni), si cela il racconto ispirato e partecipe delle seduzioni e delle malizie della magia (“Madame”), il difficile ruolo dell’infanzia negletta (“Il bambino dei topi”), le spigolosità dei percorsi geografico-mentali (“Ai confini dell’Asia”), il divertissement strumentale (“Il grido”), e ovviamente i percorsi individuali del Sentimento (“Bellafaccia”, “Ballerina”).
In copertina fa bella mostra di se un acrilico raffigurante Angelo Branduardi versione “verdeazzurra”. Le note del disco celano ringraziamenti ai nobili comprimari di sempre: la moglie di Angelo, Luisa Zappa, il produttore David Zard, le figlie Sarah e Maddalena.
A proposito di Luisa Zappa Branduardi, occorre ricordare come questa signora dimessa e gentile rappresenti non solo “l’altra metà del cielo” per Angelo Branduardi, ma anche la sua più stretta collaboratrice, valido contrappunto letterario alle note inventate dal marito. Luisa evita accuratamente di farsi riprendere in fotografia, vive il suo ruolo unicamente nei lati strettamente artistici. Casa Branduardi, sulle sponde del Lago di Como — raccontano gli amici — è un’oasi di pace e tranquillità: molto legno nell’arredamento, pochi vezzi esteriori, come la collezione di strumenti antichi. In definitiva il ritratto di una coppia tranquilla, priva delle facili suggestioni derivanti dal music business: non li vedremo mai, insomma, ospiti nei salotti mondani della Milano radical-chic.
Mentre si moltiplicano le partecipazioni ad altrui iniziative (nel ’91 è la volta di un’amichevole collaborazione a “Racconti della tenda rossa”, opera solista del “genio della chitarra” Franco Mussida, vedi Premiata Forneria Marconi e dintorni, esperienza vissuta gomito a gomito con Fabio Concato), e le apparizioni televisive a fianco degli amici di sempre (Amedeo Minghi, Roberto Vecchioni, la compianta vocalista sarda Maria Carta), si profila un nuovo impegno discografico: “Si può fare”.
“Si può fare” significa che è ora di rivitalizzare i rapporti d’amicizia e d’amore attraverso il fulcro del dialogo, di uscire una volta per tutte dalla banalità imperante. Viene realizzato, per questa canzone, un videoclip in cui alle immagini live di Angelo si sovvrappongono quelle altrettanto “vive” dei massacri in Africa e Jugoslavia; ma la vera rivoluzione musicale è rappresentata dall’avvicinamento di Angelo alla musica country and western, con ramificazioni rock-blues. Eccezionale, in questi termini, la collaborazione al disco di due figure-mito del settore: Zachary Richard (vessillo della musica cajun, vicina alle basi culturali degli Indiani d’America) e Jorma Kaunonen, ex Jefferson Airplan e (Woodstock docet…).
Il risultato è di diverso sapore branduardiano. È innegabile un pulsare altro, inedito, una ricerca di tonalità più sanguigne che dissolvono l’ossessione minimalista del passato. Adesso è tempo di musica arditamente e speditamente on the road, suonata senza risparmio, d’atmosfera e intimista solo dov’è giusto che così sia, magari solo per ricordare che sul piatto o sul lettore CD c’è pur sempre un disco di Branduardi…
La canzone “Noi, come i fiumi” impone subito un ascolto partecipe e nostalgico-esistenzialista. Di “pene d’amor perdute” si narra in “Casanova” e “Devi trattarla bene”, episodi tra i più catalizzanti del disco; la già citata, sardonica “Forte” (che beneficerà di un videoclip girato a Trieste e diretto da Piero Pieri) riesuma pulviscoli di memorie giovanili, ma è anche implicito monito a non credere alla “legge del più forte”.
La compagine italiana è ben rappresentata dal milanese Fabio Treves (che di blues e jazz ha fatto orgogliosa bandiera) e il disco appare quasi come un “manuale del chitarrista”; ma anche il caro violino non riposa, infiltrato com’è attraverso le numerose tracce del disco.
Con questo lavoro si chiude anche (speriamo non definitivamente) il sodalizio artistico tra Branduardi e sua moglie Luisa: un vero e proprio parterre de roi d’autori è infatti accanto ad Angelo per il successivo “Domenica e Lunedì” (1995), dove il bellissimo brano del titolo rappresenta un ideale passaggio del testimone di Branduardi alle generazioni più giovani. Se Eugenio Finardi si cala nel mondo branduardiano per la stupenda “C’é una sala in paradiso”, il braccio destro del Battisti più sperimentale, Pasquale Panella, accantona il cinismo glaciale del suo comune scrivere per regalarci una stupefatta “Fou de love” in italiano, latino, spagnolo. Ecco un chiaro e vincente esempio di musica multietnica, a ridosso di tanti fasulli prodotti che si spacciano per tali e drammaticamente non lo sono.
Con “Si può fare” Angelo Branduardi era ritornato ai bagni di folla: con “Domenica e Lunedì” allarga il perimetro a Spagna, Portogallo e Francia. A sedici anni tondi dal precedente è quindi consentito un nuovo album dal vivo. “Camminando Camminando” è un prodotto onesto e limpido, che s’intuisce poco “rimaneggiato” in sala d’incisione; celebra a suo modo il repertorio storico (e “Cogli la prima mela” diviene un autentico saggio di bravura, ridotta a metà della sua durata iniziale, mentre “Vanità di Vanità”, reinserita in scaletta dopo una lunga assenza, è un ritorno alle matrici classiche) e ne offre di nuovo, inaugurando la fattiva collaborazione con l’attore Giorgio Faletti, autore dei testi per “Apprendista Stregone” e “Piccola canzone dei contrari”. Un sodalizio tuttora in piedi, visto che la buona armonia della coppia ha partorito anche recentemente “Il Dito e la luna”.
Di tutt’altro genere l’impegno a Roma, nella Sala Nervi del Vaticano, dove Branduardi tiene un applauditissimo concerto davanti al Papa: occasione magistrale per ripercorrere, in chiave soffusa e intimista, vent’anni di onorata carriera. L’ipotesi professionale di ritornare, con una grande orchestra d’accompagnamento, alle radici della musica classica si concretizza con la nascita del CD “Chominciamento de Gioia” (1997): una messa musicata con grande raffinatezza.
Si arriva così, di nota in nota, a quello che a tutt’oggi rimane l’ultima prova discografica di Angelo, il già citato “Il Dito e la Luna”: dieci ritratti umanisti scritti assieme a Giorgio Faletti. Un lavoro lodatissimo dalla critica musicale italiana, che individua nel quasi cinquantenne Branduardi una sorta di “maestro saggio” della canzone d’autore italiana. Disco da cui traspare grande serenità.
Il nostro viaggio nel mondo musicale di Angelo Branduardi è giunto al termine: a chi scrive non resta che ricordare un bell’incontro con il cantautore nei camerini del Politeama Rossetti, a Trieste: non era un impegno strettamente artistico,visto che Branduardi compariva semplicemente come giurato di una manifestazione musicale. Ciononostante l’attenzione e la sensibilità dimostrata nei confronti di chiunque lo circondasse hanno reso quest’occasione anche più emozionante di un concerto.
In un panorama musicale (quello nostrano), dominato da falsi miti e da personaggi che non esistono al di fuori della dimensione fittizia del tubo catodico, Angelo Branduardi appare sempre di più come una mosca bianca: le mode e i riflussi gli sono estranei, il suo sano terrore nei confronti delle telecamere ha fatto epoca. Telecamere a cui si concede con sempre maggior parsimonia.
Smessi da tempo i panni del “cantastorie” per rivestire quelli del “ricercatore”, si aprirà, credo, a nuove suggestioni sonore, magari a teatro, davanti a un palcoscenico in penombra, dalla scenografia scarna, essenziale.
Riccardo Visintin
Le dichiarazioni attribuite ad Angelo Branduardi sono tratte da:
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Buscadero, n. 133, febbraio 1993 — “Branduardi, Si può fare ed altre storie” di Paolo Carù
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Musica! — inserto settimanale de “La Repubblica”, n. 6, 15/02/1999
CIRCA LA MIA STORIA DI VITA
Il mio nome è Grais Bridget, vengo dalla Scozia, voglio condividere la grande notizia della mia vita a tutti e per coloro che hanno bisogno di aiuto anche nella loro vita. Per 6 anni ho sofferto, mio marito mi ha lasciato ed è andato avanti sposare un’altra donna solo perché la sua famiglia non mi ama, anche perché non ero in grado di dargli figli, ero in lacrime per 6 anni soffrendo da quando mio marito ha divorziato da me, stavo cercando un incantatore per aiutarmi online, io ho incontrato tanti incantatori che mi hanno preso tutti i soldi senza aiutarmi, ma il 14 maggio 2018 ho visto un post di una donna che condivideva il buon lavoro di un mago chiamato Dr Odia, devo prendere il coraggio di contattarlo, quando l’ho contattato mi ha detto che il mio problema è stato risolto da quando l’ho contattato, dopo il suo incantesimo mi ha detto che mio marito tornerà da me in meno di 24 ore, cosa che mi è accaduta sorprendentemente, dopo aver lanciato il suo incantesimo per me mi ha detto che mio marito mi chiamano per scusarmi con me. Subito dopo che mi ha detto tutto questo, mio marito mi ha chiamato al telefono e mi ha iniziato a chiedermi di accettarlo dopo 6 anni di divorziato. oggi sto condividendo questa notizia perché voglio che il mondo sappia di lui e del suo buon lavoro, sono anche molto felice di dire che sono incinta ora dopo la sua gravidanza incantata su di me, e per quelli di voi che hanno bisogno di qualche tipo di relazione di aiuto, problema di vita, problema di soldi, nominalo, consiglio di contattare Dr Odia oggi e il problema è risolto qui sono i suoi dettagli di contatto Email: odiasolutioncenter@gmail.com e il suo numero di Whats-App: +2349065101630 e il suo Viber: +27638836445, contatto Lui e vivi la tua vita con felicità.