Presentato all’ottavo Torino Underground Cinefest in anteprima italiana e candidato a quindici Premi Goya senza poi ottenere nessuna nomination, Amigo, di Óscar Martín, è un film che, con ironia e una punta di sadismo, sfrutta una storia risaputa e dall’evoluzione intuibile trasferendo sullo schermo l’amicizia che lega nella vita reale i due attori protagonisti, Javier Botet e David Pareja, e convertendola nel classico incubo da thriller psicologico già visto in Che fine ha fatto Baby Jane?. Alla pari del citato film con Bette Davis, i due attori sono semplicemente straordinari.
Girato in meno di una settimana per i pochi mezzi a disposizione, il film, fin dal titolo, suggerisce che appunto si sta parlando di amicizia. A ulteriore conferma, subito all’inizio, compare una citazione dei Proverbi che recita: L’amico ama in ogni tempo; è nato per essere un fratello nella sventura. A ben guardare, però, l’amicizia resta sullo sfondo e lo spettatore assiste al lento deteriorarsi di un rapporto caregiver/ammalato. I due protagonisti, David e Javi, i cui nomi sono gli stessi degli attori che li interpretano, sono amici fin dall’infanzia. La storia passata non viene narrata esplicitamente ma ogni tanto emerge dalle foto osservate dai personaggi: loro due da bambini e Javi con la moglie il giorno del matrimonio. C’è stato un incidente e Javi, ora disabile grave, viene trasportato da David in una modesta casa in montagna dove progetta di prendersi cura dell’amico fornendogli l’assistenza di una fisioterapista e anche di una prostituta che, nei limiti del possibile, lo soddisfi sessualmente. Ben presto risulta chiaro che il comportamento di David non è motivato dal vero desiderio di occuparsi dell’amico ma piuttosto da un senso di colpa, in quanto responsabile dell’incidente; sentimento che lo rende anche dipendente dai farmaci. Di conseguenza, i due finiscono per trovarsi sullo stesso piano: Javi ha perso la sua autonomia fisica, David sta progressivamente perdendo la sua autonomia mentale.
Come in ogni film psicologico che si rispetti, i due finiranno per trovarsi isolati a causa delle condizioni meteo, e mentre Javi riguadagnerà, grazie alla fisioterapia, un minimo di forza fisica, David scivolerà lentamente nella nevrosi anche perché impossibilitato a farsi consegnare altre pastiglie dal medico curante. A quel punto tra i due inizierà una vera e propria guerra di nervi: Javi, spinto dal rancore, cercherà di far impazzire David suonando in continuazione la campanella accanto al letto e inducendolo a credere di volerlo uccidere con un phon lasciato sul bordo della vasca da bagno o con il veleno per topi; David piazzerà una telecamera nascosta nella stanza di Javi per osservarne maniacalmente ogni minimo movimento e allontanerà con una scusa la fisioterapista per privarlo di qualsiasi forma di aiuto terapeutico.
Il film sviluppa situazioni già viste in altri contesti ma quello che conta è il modo in cui lo fa: le montagne innevate in bianco e nero; i primissimi piani di David incollato al televisore a osservare Javi come un carnefice che studia la propria vittima; la mimica e la fisicità di Javier Botet – specializzato, a causa della Sindrome di Marfan di cui soffre, nell’interpretazione di creature da film horror -, che conferiscono credibilità al personaggio e, pur essendo quello più debole, inducono lo spettatore a pensare che in lui si celi qualcosa di diabolico.
Azzeccata la scelta di assegnare un ruolo anche ai film guardati dall’uomo convertendoli in specchio del suo stato emotivo: nelle scene in cui Javi è allettato, si vedono le immagini delle pellicole thriller-horror trasmesse dalla tv e, in occasione dell’incontro con la prostituta, la sensazione da lui provata si sovrappone a quella del personaggio femminile che sta per essere ucciso. Sensazione che si manifesterà anche nel finale ma con ben altri esiti. Quando David, invece, sospetta che Javi voglia ucciderlo, il personaggio è impegnato a guardare i cartoni animati ed emette una sardonica risata.
Il lavoro realizzato dal regista, dagli attori e dalla troupe nel pochissimo tempo a disposizione rende la pellicola qualcosa di unico da cui traspare una grande passione per quest’arte.