Nella personale quotidianità, affronto tutto ciò che scorre nel mio ambiente circostante attraverso l’immaginazione e l’uso di metafore. Cosa succede quando una persona che elabora le informazioni in questa modalità è chiamata a conoscere gli aspetti brutali del mondo?
La risposta è semplice: l’esplosione dell’atto creativo. La concretizzazione di questo effetto risulta più impervio, soprattutto quando un pizzico di intensa empatia viene aggiunto come spezia di contorno a una ricca portata. Ciò mi è accaduto di recente, incontrando tra le vie di questo mio mondo irreale le vite di miliardi di donne dell’Arabia Saudita, dove vengono imprigionate, maltrattate, violentate senza giustizia, senza vergogna, senza risentimento. In questo paese, infatti, il potere decisionale relativo alla vita di una donna assume il senso di un sistema patriarcale: è sempre una figura maschile (padre, fratello o addirittura figlio) ad avere autorità sulle scelte di una donna.
Come se non bastasse, tutto il sesso femminile dell’Arabia Saudita viene controllato fin dalla tenera età da una giustizia irrispettosa dei diritti umani, costituita solo da minacce prive di senso morale. Una tra le più in voga è quella di rispettare sempre la volontà dell’autorità maschile di riferimento per non inciampare nella trappola della Dar al Reaya, la cui traduzione letterale “casa di cura” costituisce un paradosso. Secondo il ministero per le risorse umane e lo sviluppo sociale saudita, la Dar al Reaya è un istituto di riformazione comportamentale, in cui possono finirci due tipi di donne: quelle che hanno bisogno di “correzione sociale” e di “rafforzamento della fede religiosa” perché “hanno deviato dalla retta via” e le minori di trent’anni in attesa di un’indagine o un processo. In realtà, non ci sono solo loro. In alcuni casi un’accusa di disobbedienza verso un uomo può significare un viaggio di sola andata alla “casa di cura”. Ma ci vanno anche donne che hanno cercato di sottrarsi agli abusi subiti in casa, denunciandoli o tentando di fuggire dal loro tutore. Inoltre, le poche e preziose testimonianze che si possiedono a riguardo riportano informazioni relative alla struttura fisica dei Dar al Reaya: sono composti da celle e cancelli che dividono i vari ambienti interni, sono prigioni di fatto e possiedono connotati ben lontani dai classici istituti educativi – nomenclatura utilizzata dal governo centrale. Molte delle donne sopravvissute a questi centri non intendono rilasciare nessuna dichiarazione, mentre altre raccontano solo alcuni dettagli, come la pazzia sopraggiunta nella vita di alcune compagne.
Da quando Mohammed bin Salman (detto Mbs) è diventato principe ereditario, nel giugno del 2017, la monarchia saudita ha compiuto dei passi apparentemente a favore delle donne. Pochi mesi dopo essere entrato in carica, Mbs ha promesso che il regno, l’ultimo luogo al mondo in cui era ancora in vigore il divieto di guidare per le donne, avrebbe allentato le restrizioni sui contatti tra i generi, aperto i cinema anche alle donne e alleggerito alcune norme sulla tutela.
Nel giro di poco tempo, Mbs è stato presentato all’occidente come la cosa più vicina a un femminista nel governo saudita. È nota la sua dichiarazione in un programma televisivo secondo cui donne e uomini sono uguali. Il programma è andato in onda poche ore prima dell’inizio di un tour promozionale di tre settimane negli Stati Uniti nel marzo del 2018. L’uomo è stato ben accolto da tutte le persone di rilievo americane che l’hanno incontrato e alcune volte è stato addirittura lodato. Poche settimane dopo il principe ereditario ordinava l’incarcerazione di alcune attiviste saudite e un anno dopo i servizi segreti statunitensi hanno stabilito la sua responsabilità nel brutale omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, avvenuto nel consolato saudita di Istanbul.
La sua mancanza di riforme a favore delle donne rappresenta un indiretto tentativo di evitare una risposta violenta da parte del popolo maschile che vive con l’illusione di detenere il potere: se d’un tratto venisse sottratta la possibilità da parte degli uomini sauditi di controllare le “loro” donne, scoppierebbe la rivoluzione. Forse per una realistica presa di coscienza verso una complessiva situazione degradante o forse per un’ingenua reazione conservatrice nei confronti di qualsivoglia cambiamento.
Per questa delicata tematica, esiste un solo canto di protesta, diffuso a livello mondiale.
È una cover del brano reggae No woman, no cry di Bob Marley, interpretata da tre uomini con un nuovo titolo No woman, no drive. Venne caricata sulla piattaforma musicale YouTube nel 2013 in occasione della giornata dedicata alle proteste verso il divieto per le donne saudite di guidare. Questa imposizione è stata abolita nel 2018, anno in cui vennero emesse le prime patenti intestate a donne, mentre le attiviste che si erano duramente battute per questo diritto si trovavano ancora ad aspettare in carcere per essere processate.
La registrazione, ad opera del comico e attivista sociale Hisham Fageeh, in collaborazione con il comico Fahad Albutairi e il musicista Alaa Wardi, è diventata virale. Un milione di persone ha visto il video nelle prime ventiquattr’ore. Fischiettando e applaudendo, Fageeh canta a cappella mentre Albutairi e Wardi fanno da coro. Il testo originale è stato sostituito con una pungente satira volta a svegliare la coscienza collettiva attraverso l’ironia.
Sorellina, non toccare la ruota.
Le regine non guidano, ma puoi prepararmi la cena che condividerò con te.
I tuoi piedi sono il tuo unico mezzo di trasporto, ma solo dentro casa e dico sul serio.
Fu una delle prime testimonianze posta sotto gli occhi di tutti in cui un uomo saudita prende le difese delle donne della propria patria.
A seguito di parole che riportano una cronaca tagliente per la sensibilità umana, voglio lasciarvi con un testo che spero sappia cullarvi dolcemente verso il mondo della compassione.
Di seguito, infatti, riporto una produzione creativa proveniente dall’incontro tra me e una donna saudita imprigionata in una “casa di cura”, con la particolarità di essersi realizzato nel mio già citato universo immaginativo:
All’alba di un nuovo cielo
le mie passioni si struggono in erbe fumanti
e iniziano a vibrare nell’aria
in forma di un passero solitario:
vogliono portare ciò che serve
all’altro capo della mia anima.
Navigano quindi chilometri di nuvole
per tentare di dar forza a una vita
che il mio cuore sente ma non conosce.
Smetto di essere qualcuno,
nel mio riflesso sono tutti i corpi che respirano corruzione.
Giungo in una terra arida,
dove l’agro odore di peccato stride all’olfatto
come se fosse la ruggine posta sulle cerniere
delle porte blindate.
Cerco il sudore del dolore,
e il crespo tra i capelli di una storia arruffata.
Vengo così spinta verso due occhi color acero,
accesi da una luce intenta a investigare,
e protetti da labbra carnose
che un tempo ospitavano
abbondanti sorrisi.
Lei sa riconoscermi, ma non può parlarmi.
Disegna allora con le dita
il percorso che conduce a ciò
che nella sua dimora manca con impellenza.
Apprendo il suo passo
e marcio fino all’obiettivo,
andata e ritorno,
senza sosta e senza speranza.
Tra le avversità del viaggio,
ho inghiottito il fuoco ardente,
raccolto sabbia dal fondale di un mare,
scacciato le mosche demoniache.
Posso ora fermarmi un attimo
a mirare la sacra luce eterna
di quell’alba che è già tramonto.
Follia divina e paradiso,
Pace e logica della bellezza.