Riccardo VisintinL’uomo sorridente in questa foto sfocata si chiamava Riccardo Visintin. Si chiamava, perché è stato trovato senza vita nel suo appartamento assieme al corpo senza vita del padre. Erano morti chissà da quanto e nessuno se n’è accorto.

Non vedevo Riccardo da tanto tempo. Ci eravamo conosciuti poco meno di vent’anni fa nella redazione di una battagliera rivista triestina, Fucine Mute. Scriveva di teatro e di cinema. Era un uomo colto e curioso. Parlava molto. Conosceva molte persone, ma fin da subito mi diede l’impressione di essere profondamente solo. Ricordo che viveva con il padre, si prendeva cura di lui.

Una volta andai nella sua cantina. Mi vendette dei fumetti, forse anche dei film e qualche rivista. Ricordo poco di quell’incontro, a parte la considerevole quantità di cose che collezionava. Ricordo che parlammo in qualche occasione di cammini. Io avevo da poco cambiato vita, ero stato a Santiago e lui, con il piglio del giornalista, mi faceva domande. Erano domande intelligenti. Voleva capire. Forse avrebbe voluto provare anche lui quell’esperienza.

Riccardo era di grande stazza. Era grosso. E come sovente accade a quelli che hanno conflitti importanti col proprio corpo, mascherava la fragilità parlando molto o cercando di essere simpatico. Di essere accettato. A me la sua fragilità arrivava tra i denti, me li spaccava i denti, la sentivo sorella della mia fragilità. C’era una sottile melanconia nei suoi sorrisi. Anche la melanconia veniva mascherata. La paura di essere ingombranti, di essere portatori di una diversità che stenta ad essere accolta. Queste sono mie impressioni, soltanto impressioni.

Tuttavia anch’io, come altri, devo essere collocato nel girone dei traditori. Perché se davvero a quella fragilità avessi voluto bene, in questi anni, e soprattutto nell’ultimo anno, lo avrei cercato. Avrei dovuto pensare di più ai solitari e mandare loro perlomeno un cenno. A quante persone non ho scritto e quante persone non ho chiamato in questo ultimo anno? Forse ho avuto paura di non saper maneggiare le loro solitudini, di farmi male. Il risultato non cambia: è nel girone dei traditori che devo stare.

Riccardo aveva cinquant’anni. Conosceva tanta gente. Eppure è morto e nessuno se n’è accorto per giorni. L’amico Nicolò Giraldi ha scritto un pezzo per ricordarlo citando l’attacco di uno degli ultimi articoli di Riccardo: “Il destino a volte riserva al consorzio umano degli scherzi davvero imprevedibili. Ci sottrae il vassoio caldo della nostra quotidianità, azzera le nostre abitudini e le nostre false sicurezze”. Mi chiedo: quanto solo doveva sentirsi Riccardo? Quanto poco ci siamo ricordati di lui e di quelli come lui in questo tempo?

Ormai è tardi. Spero di leggere dei ritratti generosi, delicati, scritti da chi lo conosceva bene e lo frequentava come io non ho fatto. Credo che dovremmo trovare il modo di ricordarlo con qualche iniziativa degna. Nel frattempo, per rispetto a lui, dovremmo ricordarci dei fragili che sono ancora vivi, che sono in bilico, e che abbiamo dimenticato.