Con un dito solo. Così ti ricordo, quando vent’anni fa ribattevi sulla tastiera i tuoi pezzi per Fucine Mute, rigorosamente manoscritti in stampatello su un qualche foglio, il primo che ti capitava a tiro. Ed eri come Mina in sala di registrazione: buona la prima, non servivano correzioni; su quelle estemporanee ed improvvisate superfici di cellulosa la tua scrittura fluiva limpida e cristallina, elegante e profonda. Io, che di dita continuo comunque ad usarne ancora e solo due, ti leggevo con l’invidia di Salieri verso Mozart, perché questo tu eri: principe della scrittura.

Ti ricordo al circolo degli umanisti di via dell’Industria a San Giacomo, nostro rifugio settimanale, in cui ti ho conosciuto quando avevi poco più di vent’anni, poi ti rivedo nei locali in cui noi tutti si andava subito dopo a bere qualcosa, e noi giù di birrette, mentre tu centellinavi sempre solo qualche succo di frutta, come se fosse stato un Lagavulin 16. A te devo anche l’incontro con coloro che sarebbero per molto tempo a venire diventati miei compagni di ventura, quando in Cappella Underground entrai come socio, per poi esserne amministratore prima e presidente poi.

Mi hai fatto conoscere il cinema di genere, italiano e non, riscoprire grandi autori e conoscere promesse emergenti; memorabili le nostre sessioni di visione non stop, che duravano pomeriggi interi, nella piccola sala dei riversamenti video da betamax a VHS, quella in cui un semplice tavolo, con il mio portatile sopra, avrebbe rappresentato la nascita prototipale di quelle Fucine Mute allora ancora in embrio. E c’era amore in tutto questo, perché non ti limitavi a suggerirmi una visione salvo poi andartene dopo aver inserito la cassetta nel Sony di turno: avevi, per contro, il piacere manifesto di ripassarti in rassegna, per l’ennesima volta, quello che io per la prima vedevo, commentando o preannunciandomi le parti più significative, e devo dire che l’Amarcord goduto al tuo fianco non l’avevo mai davvero visto, né penso mai più accadrà, con quello stesso trasporto di allora.

Di Fucine Mute sei stato una delle colonne portanti, capace com’eri di spaziare con estrema agilità tra fumetto, cinema, musica e teatro, i termini che costituiscono, per l’appunto, l’acronimo della testata e quindi la sua stessa dichiarazione d’intenti editoriali. Le tue interviste, di cui in qualche stratificazione sedimentata di backup digitale devo aver ancora i sorgenti video, erano qualcosa di spassoso, oltre che di incredibile: riuscivi a produrre domande da finanche dieci minuti, senza mai dare sfoggio di una competenza che certamente possedevi, ma stabilendo, per contro, una virtuosa inception con l’intervistato, dal quale riuscivi a tirar fuori l’anima, perché sapevi che l’intervista è sinfonia, coro a due voci, e non monologo salmodiante. Io imprecavo a denti stretti, pensando al peso della Hi8 che tenevo in mano (mai che mi ricordassi di portare un cavalletto), e soprattutto al lavoro di acquisizione e post produzione video che ne sarebbe seguito, in anni in cui i dischi rigidi erano quelli da 10 GB ad interfaccia parallela, e le schede di acquisizione poco più che semplici giocattoli. Poi, inevitabilmente, ero felice come una pasqua, sia quando si tornava trotterellando assieme in redazione con un’intervista che ad esempio Paolo Poli poche altre volte penso abbia rilasciato a qualsivoglia altra testata, sia dopo aver caricato su server, con uno scassatissimo modem a 56Kbps, quei quaranta e passa minuti di video, quando c’era il RealPlayer, e YouTube era ancora ben lungi dal nascere.

Sei diventato giornalista pubblicista, avendo peraltro scritto ben più del doppio di quei venti pezzi che al tempo erano necessari per ottenerne qualifica, e non c’è mai stato alcun altro nostro collaboratore, di quelli che lo sarebbero diventati a loro volta, per cui la mia firma di direttore, a certificazione del percorso formativo effettivamente avvenuto, sia stata apposta con altrettanto convincimento e profondo orgoglio. Nessuno, di quei quaranta collaboratori che grazie a Fucine Mute sarebbero diventati pubblicisti nei primi anni del 2000, aveva quelle tue caratteristiche di eterogeneità transmediale, e pochi davvero possedevano un’intelligenza così viva, frizzante e curiosa, una sensibilità così delicata e genuina, una gentilezza così stilnovisticamente cortese, ovvero propria di chi possiede un cuore nobile.

Voglio ricordarti così, caro mio Riccardone, con la battuta sagace ed il sorriso sempre pronto a manifestarsi, generoso come poche altre persone, disponibile a dare buoni consigli, e non certo solo poiché incapace di dare cattivi esempi. Ricordarti, infine, mentre vagoli in Cavana per vecchie rigatterie, in cerca di libri negletti e dimenticati, quelli che poi trasportavi dentro improbabili borse della spesa o sacchetti di cartone, tuoi inseparabili compagni di eterne camminate urbane, con incedere lento e vieppiù stanco.

Non sono riuscito ad esserti vicino come avrei pur voluto, se solo avessi avuto il tempo che la mia vita mi ha portato a destinare sempre più alla famiglia e al lavoro. I tuoi propositi di una pizza assieme, e le mie vane promesse al seguito, ogni volta ribadite quando ci si incontrava per strada o in autobus, ciascuno al ritorno verso sua propria dimora, restano a questo punto relegati alla sconsolata tristezza delle cose mai fatte, delle frasi mai dette, delle occasioni ormai perse.

Resta per sempre sospeso e ibernato, all’orizzonte degli eventi, quel mio ultimo frettoloso saluto di un mese fa, le due nostre mani a mezz’aria, tu sul marciapiedi di via Giulia, sotto casa tua, io dall’altra parte della strada, in bici. Porterò sempre nel cuore l’immagine di quelle due nostre mani comunicanti pur nella distanza, metafora e quasi emblema di quanto possa il destino esser beffardo e la vita villana.

Un noto settimanale di programmi radiotelevisivi palesava in copertina, qualche settimana fa uno spettatore solo in un’enorme sala cinematografica; disperatamente solo sulla sua poltroncina di velluto rosso in compagnia di una mega porzione di popcorn.
Speriamo che non sia così il nostro futuro, e che si ritorni quanto prima al gesto ed al sublime connaturato moto dell’abbraccio.
Il cinema serve anche a questo ed a una bella sensazione non si chiede altro che ci torni a trovare.

Riccardo Visintin