A volte sembra che la sorte punti numeri bizzarri sulla ruota dell’ironia. L’8 gennaio 1947 venne alla luce uno dei statuari pilastri della storia pop e rock della musica, oltre che straordinario artista poliedrico: David Robert Jones, in arte David Bowie. Morì il 10 gennaio 2016, a seguito di una presunta eutanasia programmata per porre fine alla silenziosa lotta contro un tumore al fegato.
In questo mese in equilibrio tra l’inizio e la fine del suo percorso vitale, risulta quasi doveroso perdersi nel racconto della sua sconfinata carriera, per il semplice gusto di assaporare le idee fondanti delle sue principali svolte artistiche e per riscoprire che a distanza di anni risultano ancora geniali e innovative. Proprio in queste settimane mi è capitato di leggere alcuni aneddoti relativi ai primi anni del suo successo, riportati nel saggio musicale 1971: Never a Dull Moment di David Hepworth. Il libro ripercorre mese per mese gli avvenimenti cardinali di quell’annata fortunata per la storia mondiale della musica rock. Pur non avendo ancora avuto modo di concluderne la lettura, ho voluto ripercorrere, nell’anniversario della sua nascita, il primo viaggio del cantante negli Stati Uniti.
Il 24 gennaio 1971 David Bowie prese il volo che lo condusse all’aeroporto di Washington. La sua ispirazione era bloccata da dopo la pubblicazione dell’ultimo singolo, Space Oddity, risalente al 1969. L’artista aveva però stipulato un contratto con la casa discografica americana Mercury Records, grazie alla quale avrebbe promosso negli Usa l’album The Man Who Sold The World. Purtroppo, non poté mai esibirsi ufficialmente nel corso della sua permanenza a causa di accordi sindacali con l’American Musicians Union. La sua trasferta consistette dunque in semplici apparizioni o interviste. In ogni caso, Bowie ebbe la fortuna di collaborare con entusiasti e valevoli supporters, appartenenti allo staff della Mercury Records. Uno di questi fu il capo dell’ufficio pubblicitario Ron Oberman, con cui l’artista sarebbe rimasto almeno nei primi giorni seguenti al suo atterraggio. Per Ron era un’occasione importante potersi recare all’aeroporto con questo incarico, motivo per cui si fece accompagnare anche dai genitori. Mai si sarebbero aspettati quello che accadde all’arrivo di Bowie: il cantante fu trattenuto per quarantacinque minuti dalle autorità aeroportuali a causa del suo insolito abbigliamento. David indossava una pelliccia blu elettrico e un paio di pantaloni di velluto, ripiegati in stivaletti neri da motociclista. Se avessero perquisito la sua valigia, avrebbero trovato uno degli abiti che lo stilista-designer britannico Michael Fish aveva disegnato appositamente per lui. Fish aveva anche ideato lo splendido vestito che figura sulla copertina dell’album The Man Who Sold The World. Il tutto, condito con la classica piega ai capelli di Bowie, fece apparire l’artista come la bizzarra controfigura di un’attrice.
La moglie di David, Angie, con cui era sposato da poco più di un anno, non poté partecipare a questo suo primo viaggio in America. Da un lato, fu impossibilitata a causa del ridotto budget concesso all’artista, dall’altro, era incinta di sei mesi del primogenito di Bowie. Angie rimase dunque nella loro casa in Inghilterra, una comune a Beckenham, dove i coinquilini si dedicarono soprattutto al lancio della carriera di Bowie.
David trascorse le tre settimane più istruttive della sua carriera tra New York, Detroit, Minneapolis, e tra il Texas e la California. Come ogni giovane dei primi anni Settanta proveniente dal Regno Unito, che al tempo possedeva un’unica stazione radio pop e soltanto tre canali TV, rimase folgorato dall’abbondanza e dalla facilità che caratterizzavano le vite di ogni americano. Lontano dalle responsabilità, si sentì libero di esprimere quello che non avrebbe potuto dire tornando in patria: durante un’intervista con San Francisco Dj, dichiarò che il suo ultimo LP rappresentava le reminiscenze della sua esperienza come travestito dalla “testa rasata” e che gli piaceva interrompere qualsiasi conversazione in corso in qualsivoglia ristorante semplicemente entrandovi e camminando tra la gente.
Durante quelle settimane, Bowie cambiò radicalmente il suo modo di concepire la musica. A New York ebbe modo di ascoltare i Velvet Underground – rimase deluso per aver stretto la mano al cantante pensando fosse Lou Reed, scoprendo più tardi che aveva già abbandonato il gruppo. A Manhattan incontrò lo street musician d’avanguardia Moondog. A San José assistette a un concerto degli Stooges, i quali di lì a poco avrebbero rischiato lo scioglimento a causa di un insuccesso commerciale che li avrebbe portati a perdersi nell’abuso di eroina. David conobbe Iggy Pop quello stesso anno, solo alcuni mesi dopo.
Una volta giunto a Los Angeles, il 13 febbraio, disse al suo nuovo amico e DJ radiofonico Rodney Bingenheimer di avere un’idea relativa alla tematica dell’album successivo: si sarebbe incentrato sull’ideale di Ziggy Stardust. La settimana a Hollywood trascorse come in un sogno, tra l’abitazione poco distante da Sunset Boulevard del manager Tom Ayres e i viaggi in Cadillac da un’intervista all’altra.
Come ogni musicista in formazione, Bowie considerava Ayres l’uomo in grado di aiutarlo concretamente. Il produttore americano ammise che l’etichetta RCA Records, da lui gestita, viveva soltanto della luce di Elvis Presley, che però non sarebbe durata in eterno. Così, fu proprio grazie al rapporto instauratosi con Tom Ayres che l’album successivo, Ziggy Stardust, rientrò nella lista di produzioni firmate RCA Records, conquistando un posto tra quelli occupati dalle opere dello stimato King Elvis. È divertente pensare a due particolari coincidenze che emergono da questa fortunata collaborazione: Presley, oltre a essere nato lo stesso giorno di Bowie, fu uno dei modelli principali a cui David si ispirò nel corso della sua educazione musicale. Infatti, Bowie lo scoprì e iniziò ad amarlo grazie a sua cugina: dopo averla vista scatenarsi in modo appassionato e inedito sulle note di Presley, si convinse che la musica sarebbe dovuta diventare il suo mestiere. L’artista raccontò in seguito che a scuola dichiarava di voler diventare l’Elvis britannico.
Quando David Bowie ritornò a Londra il 18 febbraio di quel famoso 1971, non poté in alcun modo trattenere l’eccitazione e la sensazione di rinnovamento sperimentata durante il viaggio. La collisione tra la sensibilità inglese e la reale “scoperta dell’America” era stato il fattore che sette anni prima aveva spinto i Beatles e i Rolling Stones a creare la loro musica definitiva. Ora era il turno di Bowie.