Giovane eppure non nuova ad esperienze letterarie di un certo livello, Michelle Steinbeck, autrice svizzera di cui la casa editrice Tunué ha appena pubblicato il romanzo d’esordio, Mio padre era un uomo sulla terra e in acqua una balena, possiede uno stile che cattura l’attenzione del lettore coinvolgendolo in un viaggio tra il visionario e il surreale.
Il primo impatto è forse un po’ disorientante in quanto si entra subito nella testa della protagonista e quindi in un mondo confuso, metaforico e sovraccarico di presenze.
Loribeth ha un complesso rapporto con un padre che non ha mai desiderato avere figli ed è fuggito lasciando lei e il fratello da soli con la madre. Questo rapporto finisce per tradursi in una serie di immagini che popolano la mente della giovane e la spingono a imbarcarsi in un viaggio con al seguito una valigia contenente un bambino che lei avrebbe ucciso con un ferro da stiro in uno scatto d’ira. Durante questo percorso, il cui fine ultimo è la consegna della valigia al padre, il personaggio si confronta con creature e ambientazioni che sono – ma ogni lettore è libero di dare la propria personale interpretazione dei fatti – la proiezione delle sue paure e dei gesti da lei compiuti in passato e si inseriscono in un immaginario che spazia dalla fiaba alla letteratura gotica con incursioni nel mondo del cinema e della musica.
Tra i riferimenti più o meno espliciti si annoverano Il Mago di Oz di L. Frank Baum, con il tentativo di ritrovare una strada di casa e la citazione di Somewhere over the Rainbow; il Cuore rivelatore di Edgar Allan Poe, con il cadavere del bambino che bussa in continuazione rendendo ossessiva la sua presenza; The Mariner’s Revenge Song, del gruppo indie folk rock The Decemberists, che narra la storia di un uomo, con madre vittima di un poco di buono, intrappolato nel ventre di una balena e la strega di Hansel e Gretel, che suggerisce a Loribeth di riconsegnare al padre la valigia per liberarsi di un fardello e vivere serenamente.
Alcune situazioni narrate hanno un che di granguignolesco: cadaveri in putrefazione, crani sfondati, teste di pecora scuoiate, un occhio tra i denti di un gatto, pesci sventrati e spargimenti di budella, tuttavia l’autrice non fa un uso gratuito di questi elementi ma li inserisce in un contesto preciso il cui scopo non è disgustare bensì rendere palese lo stato emotivo della protagonista e il disagio che prova mentre è alla ricerca di se stessa.
La tematica del bambino si ripete più volte nel corso del romanzo assumendo varie forme. Loribeth ha un bambino in valigia di cui vorrebbe liberarsi; Unicorno, la ragazza incontrata nella casa nel mare, narra di aver perso una bambina durante una festa dopo essersi strafatta di sciroppo e la sorella di Fridolin Seifert, Mabel, racconta di un bambino che i suoi genitori le hanno portato via. È difficile staccarsi dall’infanzia e diventare definitivamente adulti; si desidera vivere la propria vita, ma allo stesso tempo si ha il timore di commettere gli stessi errori dei genitori e ci si sente terrorizzati quando si è costretti a mettere in discussione le proprie certezze. Bisogna imparare a crescere per quanto impossibile possa sembrare.
Sono grande. Sono grande adesso. Posso lavarmi i denti quando voglio, e se non voglio, non lo faccio e basta. Posso entrare in un club di tifosi comunisti, cantare a squarciagola nella piazza del paese, sentirmi finalmente parte di qualcosa. O anche no. Ma è adesso che posso e devo fare quello che ho sempre voluto, quello che voglio adesso. Perché altrimenti non succederà mai.
Il linguaggio utilizzato dall’autrice è ricco di allegorie, e anche se il romanzo possiede una sua linearità – ogni capitolo rappresenta una tappa del viaggio – è facile che gli episodi si accumulino o si sovrappongano con ripresa di situazioni già affrontate in precedenza. È come se ci si trovasse di fronte a un flusso di coscienza di Loribeth che cerca disperatamente di mettere ordine nel proprio cervello. Superato lo spaesamento iniziale, è un romanzo che riserva piacevoli sorprese.