Dan Panosian ha un lungo rapporto col mondo del fumetto, ma la sua attività artistica non si è limitata a questo. È stato anche illustratore, animatore, visualizer, storyboard artist e grafico pubblicitario (e alcune di queste attività continua a svolgerle ancora oggi). E ha pure tentato la carriera di pugile.
Oltre a lavorare per entrambe le “Big Two” del mercato statunitense, la Marvel e la DC, ha pubblicato con moltissimi altri editori statunitensi, tra cui la Image e la Dark Horse. Si è anche fatto notare sul mercato francese con gli albi di John Tiffany, scritti da Stephen Desberg. Il suo stile molto vivido e contrastato è d’altronde più affine alla tradizione europea rispetto alle ipertrofie o alle recenti derive caricaturali dei supereroi.
Panosian rappresenta un caso piuttosto raro nel mondo dei comic book, soprattutto di quelli contemporanei: è infatti in grado di fare indifferentemente le matite come il ripasso a china delle tavole, attività solitamente distinte nel mercato USA. Inoltre si è anche dedicato alla scrittura e infatti a Lucca è presente con un volume di cui è autore completo: Slots, edito da saldaPress.
Luca Lorenzon (LL): Sei piuttosto espressivo in confronto ad altri disegnatori che lavorano per il mercato statunitense. Come sviluppi un personaggio?
Dan Panosian (DP): Penso per prima cosa alla sua personalità e alle espressioni del volto. Ho avuto qualche esperienza nell’animazione, quindi mi concentro molto sull’espressività e il movimento dei personaggi: è la parte più difficile, ma anche la più divertente.
Figurati che quando disegno mi viene spontaneo fare le boccacce dei miei personaggi. Quando passa mia moglie e mi vede pensa che sono matto!
LL: Il tuo passato di boxeur può aver influito sulla ricerca dell’espressività?
DP: Ma no, non c’entra niente; se proprio devo trovare un modello per l’espressività più che altro mi viene dalla passione per i film Disney, che con poche linee raccontano molto e fanno capire subito lo stato d’animo dei personaggi.
LL: Anche tu hai fatto animazione…
DP: In realtà ho fatto poco in animazione, in quel settore c’è un lavoro di tipo più collettivo che non me lo ha fatto sentire “mio”. Ho lavorato per Kung Fu Panda ma ero solo un ingranaggio del meccanismo. Una curiosità: Kung Fu Panda in origine era un videogame bruttissimo (credo si chiamasse Tai Fu), poi Spielberg lo vide e dopo dieci anni volle farne il film che ebbe un grandissimo successo.
LL: Ci sono degli artisti in particolare che ti hanno ispirato? Mi sembra di vedere influssi europei nei tuoi disegni.
DP: Più che altro sono stato influenzato da mio padre. Era un pubblicitario, amava i comic book e volevo essere come lui (tra l’altro anche lui era pugile). C’era sempre tanta arte in casa nostra ed era inevitabile che mi sentissi ispirato da quell’ambiente.
LL: E hai avuto una formazione specifica?
DP: No, non ho frequentato nessuna scuola d’arte e ancora oggi lo rimpiango. Possiamo dire che sto ancora imparando. Oggi con Facebook e Instagram puoi imparare molto confrontandoti con gli altri.
LL: Arrivano fumetti italiani in USA?
DP: Non molti… Tex, Diabolik, Dylan Dog e Ken Parker che amo molto.
LL: Però tanti italiani lavorano in America…
DP: Certo, e sono molto bravi. Si vede che hanno delle basi differenti e più solide.