Il tempo (presente, sennò quale) è un’interruzione: di spazio, di azione e di pensiero. Mi piacerebbe scrivere di questo, attuale stato di cose – provvisoriamente a sedere – durante il quale sto scrivendo, e mi interrompo, per uscire a ritirare i panni stesi, già quasi stecchiti, al sole. Il punto che dopo la parola sole porta il rigo accapo, interrompendo frase e rigo, altra interruzione. Interruzioni di parole, dunque, di suoni, qui fuori – fringuelli interrotti dal martelletto picchiettante da qualcuno, nell’altra stanza, nell’altra casa. Interruzione d’attenzione, di concentrazione: arriva una lettera, squilla il telefono, qualcosa scorre, come una macchina da scrivere, come un flusso d’acqua dal rubinetto, dalla saia, dal tubo di gomma, da una parte all’altra del giardino secco e assetato. Intensità d’interruzione variabili. Chiudo il documento, apro la porta-finestra. Mi alzo, prendo la cesta per i panni, mi reco fuori a fare quello di cui sopra dico, anzi scrivo, mi dirigo a ritirare i vestiti lì fuori, che saranno ancora più asciutti, se possibile, più secchi. Qualcuno apre la porta, fa rumori di vetro, apre il rubinetto, interrompe e ritorna ad aprire la porta, per la quale esce, e ritorna oltre e ritorno qui, dov’ero, dove sembrava d’esser stati interrotti, in tutti questi e quegli altri atti interrompibili con facilità e alta probabilità di riuscita – d’interruzione. L’una dentro l’altra, nell’altra. Più o meno come si fa coi passi, come fanno i passi, susseguendosi, arretrando, arrestandosi. Ad ogni interruzione corrisponde una ripartenza. Ad ogni ripartenza, una ritirata, o fermata, per un’altra rincorsa, una corsetta sul posto, un’interruzione nata, un’altra già stanca, una pronta a compiersi per qualunque altra scusa. Ecco, sempre una scusa per interrompersi, a interromperci. Anche una scusa viene interrotta. L’interruzione è un tempo partecipe e vigente, sempre – nell’atrio, antro, androne, andirivieni di uno spazio (perenne? Perennemente interrompibile?).
Lo stesso, per la lingua parlata, e quella scritta. La lingua continuata, procedente, preceduta, scelta prima e dopo l’ennesima interruzione. Si ammorbidiscono le palpebre, viene un po’ di sonno, sonno che interromperà certa attenzione, certe tensioni, stanchezze, noia e distrazioni da altre interruzioni. Un testo affastellato di parentesi, affaccendato di non-farsi, di scelte del tipo, adesso interrompo tutto e me ne sto, scomparso, al mio posto, sul posto, piede di partenza, destro, sinistro sopra il destro, seduto su un’anca, la sedia tiene tutto, me e il gatto, scomodi in apparenza, interrotto l’ipotetico sonnellino pomeridiano, ritorniamo a sedere, a lavarsi lui e cercare i rumori più piccoli, a scrivere io e a trovare i rumori più interrotti. Le sue, del gatto, distrazioni e interruzioni non hanno poi un granché di didascalico (ai miei occhi), le mie magari troppo. Il dramma, probabilmente, nella vita, in questa (mia) è di non esser riuscito ad imparare a cucire.
Questa è un’aria di infanzia,
tramonto con un occhio solo.
Della specie delle polaroid
*
Siamo qui viviamo per.
Questo tratto di strada. E nuvole
veloci passeggere uscendo di casa.
Fra occhi e stella.
Siamo vivi uguali, e che sento a pelle
questa mia sento sento e stando
al massimo nel sonno posso
andare via, senza un vero addio, la
buonanotte tua
**
Già non sono io, no, non più qui.
Forse, in. O fuori da. In raccoglimento, nuvole, hanno
forbici (forcipi?) d’aria. Grande, l’amore che tiene le foglie al ramo
***
Vedo un gatto passare e mi sembra un confine. Come col-mare
l’inverno.
*
Stivali di gomma viola o come dire. Delle varietà di ogni lingua, dei molteplici modi di dire e camminare.
Senza alcuna esclamazione, forse a tutto colore?
**
Sentire dove cresce il mio lato di giorno. “no, ‘i fragoli ‘nna ùra ancora”*.
*
Le cose sono come – come sono e l’aria.
Come vengono e trattengono. Noi sul marciapiede, le strade stesse.
Quasi, le auto. Coi loro motori, mobili e ingegnati, a quanto pare, da noi. Sentirsi
inventori, accettarsi, accertarsi, tali e quali. Inventori di respiri, di ripetizioni. Di
giorni ancora nuovi. Di metri buoni ai metri. Di misure, condizioni, nomi e nomi. Poi
scivoliamo un poco, macchiniamo poco poco un sogno e non è sempre il caso di dormire. Il mito
di dire, di raggiungere dal dire al raggiungere. Il grande mare. E pure sollievo, e pure suo mare
sue ombre allieve, noi onde casuali. Noi parole da allevamento, ce ne andremo (come vecchie cinquanta lire). Ma
c’è il sollievo di noi, di io tu.
Più il passo è leggero
più si sente sincero, se
se ne va
Se
se ne va
Giampaolo De Pietro
Trackback/Pingback