Se non bastasse Sakari Kuosmanen, sul proscenio, ad attestare la paternità dell’opera, ecco Kati Outinen, diaconessa di un culto cinematografico più che trentennale, prestarsi a un cammeo nella parte di una negoziante prossima al ritiro e alla partenza per il Messico. Sì, L’altro volto della speranza, Orso d’argento alla regia, l’inverno scorso, a Berlino, è indubbiamente una pellicola di Aki Kaurismäki, e non solo per l’epifania degli attori-feticcio, ma per il puntuale riproporsi di una serie di caratteristiche. Quali? Certi campi fissi, alla Ozu; l’assenza di musica extradiegetica e l’indie-rock suonato sulla scena; lo squallore dei sobborghi urbani, così dissimili dalla terra dei mille laghi verdeggiante nell’immaginario collettivo; i colori squillanti di costumi e arredi che paiono fuoriusciti da un Domestic interior di David Hockney; i visi smunti e plebei di un’umanità che avrebbe potuto dipingere Grant Wood; lo humour a un piede dall’assurdo; i dialoghi brachilogici assediati da silenzi pregni di significato e difformi come due distinte esecuzioni di 4’33” di John Cage. La pasta, insomma, di un cinema burbero e mai burbanzoso, spartano ma senza cinismo. Ciò che non sempre è un bene…
Khaled fugge dalla Siria in fiamme e approda a Helsinki a bordo di una nave carbonifera. Quando la sua richiesta d’asilo politico viene respinta, si sottrae alle autorità e si nasconde. Wikström, agente di commercio nel settore dell’abbigliamento, pianta la moglie appoggiando sul tavolo, in uno dei brani migliori, fede nuziale e chiavi di casa. Vinta una forte somma di denaro a poker, decide, come l’eroina di Nuvole in viaggio, di rilevare un ristorante, accollandosi anche il personale già in servizio, assai pittoresco. È tra i cassonetti del locale che Wikström sorprende Khaled, lì “accasatosi”. Anche se il primo impatto è un po’ traumatico, i due diverranno amici. Ma Khaled non ha i documenti e, per di più, è perseguitato da una perniciosa e sgangherata banda di xenofobi…
La figura dello straniero, emblema di uno spaesamento più generale che individuale, non è una novità nella filmografia del maestro finlandese. Già in Vita da bohème il regista faceva di Rodolfo un pittore balcanico, per giunta privo di permesso di soggiorno, a Parigi. E, prima del bimbo africano di Miracolo a Le Havre, c’erano state anche le incomunicanti ragazze sovietiche di Tatjana. Certo, il personaggio di Khaled si carica delle atrocità e dei lutti di un’attualità disperata: il giovane è solo uno dei molti che, dal Medio Oriente, si riversano, ai giorni nostri, sull’Europa, ponendole il problema spinoso dell’accoglienza e dell’integrazione. Toivon tuolla puolen è, perciò, anche un film politico. Ciò che non gli giova. Non perché sia biasimevole, di per sé, girare film politici, ma perché le sceneggiature inverosimili e sbullonate di Kaurismäki non rendono il servizio più adeguato a temi che meriterebbero una maggiore “precisione”. La commedia funziona sul piano etico, come vicenda dell’incontro di due solitudini in una società ostile. E Kaurismäki, da par suo, riesce anche a indovinare qualche gag (le aringhe servite in scatoletta, i dipendenti in fila a chiedere un anticipo a Wikström). L’ampia esposizione dell’iter affrontato dal profugo per (non) ottenere asilo ci suggerisce, tuttavia, che a Kaurismäki non interessa solo presentarci due casi di alienazione metropolitana, ma, da capo, riflettere su uno dei più preoccupanti crucci dell’Europa odierna. Ebbene, una riflessione simile è difficile a condursi al seguito di una trama tanto improbabile, puntellata da personaggi bidimensionali e costituita da azioni a cui non corrisponde mai una reazione coerente (è possibile che, dopo averci fatto a pugni, Wikström offra da mangiare a Khaled e dia accoglienza a colui che, in fondo, è un ricercato? È credibile che una pattuglia di razzisti disorganizzati perseguiti con tanta pervicacia un singolo immigrato, quando ne avrebbe dozzine contro cui scagliarsi, e lo stani prima della polizia? E, a proposito, la polizia si è mai accorta della fuga di Khaled?). Stavolta, poi, Kaurismäki sembra non accontentarsi dell’essenzialità dei suoi soggetti più tipici e tende a saturare l’ora e mezza a disposizione di subplot non sempre necessari, anzi spesso inutili, che lui stesso appare in difficoltà a gestire, dalla serata-sushi all’episodio, alla De Amicis, della sorella di Khaled.
Il sacrificio intellettuale che Kaurismäki domanda allo spettatore che non sia un suo fan sfegatato è di non poco conto. Come irritante, nell’Altro volto della speranza, risulta la solidarietà manifestata a clandestini e relativi fiancheggiatori (qui presentati come ospiti generosi). Almeno, di questo all’autore bisogna dare atto, il finale aperto, malinconico e in deficit d’ottimismo, rimpiazza l’happy ending dichiaratamente illogico di certi precedenti. E dispensa un granulo di poesia.