“Roma era invecchiata più rapidamente di lui; il che, ne conveniva, era un pensiero bislacco. Sembrava uscita da una nuova guerra mondiale, forse meno catastrofica della precedente ma altrettanto ingloriosa: voragini nel manto stradale, cumuli putrescenti di masserizie, convogli di autobus in panne…”. L’ordinario degrado della capitale, che foraggia ormai cronaca e social network, non soltanto saluta il ritorno all’ovile di Matteo Zevi, simpatica canaglia, dopo sedici anni di latitanza americana, ma manifesta, con l’inverecondia di una metafora scoperta, la dolina di decadenza umana nella quale anche lui finirà calato. Fuggito in fretta e furia, all’apice di una carriera di sciupafemmine e free climber finanziario, per sottrarsi alla minaccia nembosa di un bieco creditore, Matteo che, negli Stati Uniti, ha impalmato nel frattempo altre due donne, ritrova in Italia una delle sue mogli tiberine, Federica, che, trascorsa la vedovanza bianca a prevenire ogni sorta di conflitto, non si avvede della battaglia di Austerlitz che sferraglia e infiamma dentro di lei, e la figlia, Martina, macerata dall’amore distruttivo per l’altezzosa sorella dell’insipido marito. E, oltre a Martina, Giorgio, frutto di un matrimonio precedente, divenuto un ristoratore di successo e un individuo del tutto alienato, per nulla pronto alla genitorialità che gli tocca di affrontare insieme alla compagna, primipara tardiva di nome Sara (!).
Forse non ci prendeva Tolstoj quando asseriva che tutte le famiglie felici sono tra loro simili, ma a percorrere Dove la storia finisce, quarta fatica di Alessandro Piperno edita di fresco da Mondadori, si stenta a credere che ogni famiglia infelice lo sia a modo suo, perché la schiatta Zevi, ridotta in tranci, sembra omologarsi diligentemente, tra incomprensioni, rotture e casi clinici, allo stereotipo condiviso dell’infelicità familiare. Narratore pervicace di splendori e miserie della borghesia ebraica dell’Urbe, il filologo proustiano attracca una volta ancora al suo molo tematico prediletto con un’opera che non aggiunge molto all’ante scriptum e qualcosa, al contrario, toglie. Smottamenti esistenziali, frane interiori ci sono. Gli errori passati, gli effetti presenti anche: il fuoco amico dei ricordi. E inoltre, come fu per i fratelli Pontecorvo di Persecuzione e Inseparabili, le conseguenze che l’assenza imprevista di un padre, anche se per ragioni molto diverse, può suscitare nell’animo dei figli, irriferibile tritume di rabbia, insicurezza e mutilazione affettiva (gli sforzi di Federica per garantire un’impossibile normalità, d’altro canto, sono accomunabili all’abnegazione di Rachel nel dittico di cui sopra).
Eppure, al confronto con i personaggi dei libri precedenti, gli Zevi e le figure che orbitano loro intorno appaiono solo macchiette funzionali a ribadire l’avversione dell’autore al consesso familiare che, spolpate come soggetti di Alice Neel, trascinano linfatiche il loro disagio e le loro stranezze da manuale, ben distanti dagli abissi di perversione e di disperazione a cui lo scrittore ci aveva abituato, quando, in seduta spiritica congiunta con Philip Roth, Elfriede Jelinek e Todd Solondz, dialogava con Luis Buñuel e Tennesse Williams. La catabasi dinastica, nazionale, storica è, a sua volta, osservata senza reale partecipazione, lungi da I Buddenbrook che Federica rilegge comparando la sua disillusione agli slanci romantici di Antonie diciottenne. L’epilogo apocalittico, à la Nathanael West (Il giorno della locusta, naturalmente) traslato, senza troppa fantasia, all’epoca del terrorismo globale e relative emulazioni, sopraggiunge poi come un deus ex machina non tanto per sbrogliare una situazione troppo intricata, quanto per animare un organismo drammaturgico in spegnimento, preludendo, per giunta, a un riaggiustamento poco persuasivo e addirittura buonistico delle cose.
Qualche brano vellicante Piperno riesce pure a regalarlo, vedi l’inglorioso abbordaggio, da parte di una Martina alticcia, di due tizi, all’aeroporto, che si scopriranno essere poliziotti, o la visita, a Giorgio, di un sedicente operatore dei Nas che evoca, con allusioni ai limiti del mafioso, un’imprecisata minaccia pendente sul giovane. Ma il sarcasmo degli altri romanzi? Sembra stemperarsi in una blanda ironia. Godibile, ma non certo viscerale. La destrezza dell’artista nell’ordinare la materia diegetica, e in particolare le sfasature cronologiche, i flashback che si diramano in continuazione dal tronco delle vicende odierne (e nulla c’entrano con memoria involontaria e tempi perduto e ritrovato) è fuori discussione. Ma lo stile, per quanto terso ed elegante, suona come un lavaggio sbiadente della sontuosità così policroma e personale che ha connotato finora il verbo piperniano, in favore di una sobrietà spersonalizzante.
Per quanto scorrevole sia la lettura, perfino dilettevole per chi di Piperno non abbia assaporato altro, l’impressione, in chi ha seguito l’autore da Con le peggiori intenzioni, è di una mancanza (che si traduce, anche, empiricamente, in una contrazione del numero delle pagine). Siamo allo svincolo di un’evoluzione formale? Lo appureremo alla prossima prova.