La foresta dei sogniUno spettro si aggira per il continente Van Sant –lo spettro della morte. Che essa penda sulla collottola degli uomini o si manifesti sul proscenio nella sua perentoria implacabilità, è, da sempre, un lemma imprescindibile del dizionario cinematografico del prode Gus che, negli anni, ce l’ha presentata in fogge differenti: la vocazione autodistruttiva (e irresistibile) dei reietti di Drugstore cowboy, la fonte di un insopprimibile richiamo nella rockstar di Last days, il martirio in Milk, un appuntamento imminente nell’Amore che resta. E, ancora, in Paranoid park ed Elephant, l’evento che squarcia il manto dell’ordine apparente per lasciar intravedere, oltre, la violenza latente nella società e nell’individuo come l’insensatezza della vita. Non meraviglia, pertanto, che il regista sia stato attratto dal soggetto di The sea of trees. In un tragitto filmografico diviso, fin da quando Hollywood si è accorta di lui, tra indie e mainstream, tra innovazione e tradizione, Van Sant ha immancabilmente oscillato anche tra eccellenza e mediocrità. E, ora, tocca all’Italia, a quasi un anno dal debutto a Cannes, accogliere una pellicola già vituperata dai più autorevoli organi della stampa occidentale. E che non sarà forse la frode denunciata da alcuni, ma non può certo rivendicare applausi e lodi.

Il fisico Arthur si imbarca senza bagaglio su un aereo che, dagli Stati Uniti, lo porta in Giappone. All’ombra del monte Fuji si estende, infatti, la foresta di Aokigahara, promised land di centinaia di aspiranti suicidi. E tale è anche Arthur. Oppresso dal ricordo della moglie Joan, sopravvissuta al cancro e poi perita per uno sberleffo della sorte, ma anche dal senso di colpa per le proprie mancanze, dalla memoria tormentosa di una convivenza conflittuale e ingrata, dall’insuccesso professionale e da un fallimento ormai somatizzato, Arthur si inoltra nella selva, deciso a compiere un gesto estremo. E tuttavia l’incontro con l’indigeno Takumi, un manager spinto fin là dal licenziamento ma che, a un certo punto, ha cambiato idea, lo indurrà a ripensarci. La confessione lacerante alla quale si abbandona lo aiuterà a mettere a fuoco ciò che, per la disperazione, gli è fino ad allora apparso fosco. E Aokigahara è un luogo, a suo modo, magico, gremito di presenze-assenze che possono indicare una continuità insospettata tra aldiqua e aldilà…

La foresta dei sogni - un fotogramma

Sulla confezione, nulla da eccepire. Un’abile direzione della fotografia sa conferire sia la profondità di campo necessaria al Bergfilm, con vedute paesaggistiche che, da sole, bastano a evocare il sublime, sia restituire la sofferenza dei volti in primissimi piani che scavano nei solchi cutanei ed emotivi. Pietro Scalia, che già sedette alla moviola di Will Hunting –Genio ribelle, assegna il giusto ritmo all’insieme. Mason Bates, all’esordio nel lungometraggio, non ricorre all’impasto techno-strumentale delle sue sperimentazioni più ardite, ma compone comunque una musica in grado di comunicare la giusta tensione e creare la giusta atmosfera. E, bisogna aggiungere, neppure il personaggio di Arthur è caratterizzato male. Al contrario, il suo dramma non manca di autenticità e il suo fardello interiore, quando emerge nei flashback che ripercorrono il suo passato con Joan, di credibilità, aumentate dalla prova encomiabile di uno strasberghiano Matthew McConaughey.

Ciò che, francamente, disturba, è come il dramma viene sviluppato. E la mal riposta fiducia di Van Sant nella sceneggiatura di Chris Sparling. A cominciare dalla dimensione da survive movie che l’opera, a un certo punto, assume (pare, a tratti, di rivedere Revenant) e che, oltre ai trascinamenti nell’implausibilità, cagiona effetti di umorismo involontario: fisico bestiale, Arthur, che non solo sopravvive a un rovinoso ruzzolone da una scarpata proditoria (e conserva, per giunta, una lucidità mentale che gli consente di discettare poi con raffinata sensibilità), ma supera anche indenne il nubifragio e l’alluvione! Certo, le cose non migliorano quando La foresta dei sogni si comporta da mélo. E la responsabilità non è da attribuirsi, genericamente, a quella tendenza a una sentimentalità struggente che Todd McCarthy, su The Hollywood reporter, ha definito “Gus Van Sant’s sticky, gooey side”, la quale ha saputo, in precedenza, incorporarsi in sermoni filmici coerenti, quanto piuttosto alle forzature contingenti. Poteva essere interessante il confronto, alla maniera di Hermann Hesse e dei suoi romanzi maggiori, di due personaggi esemplari forieri di opposte visioni del mondo, ma qui l’antitesi tra lo scienziato ateo e materialista e l’orientale mistico e spirituale suona piuttosto greve. Sulle simbologie floreali, poi, è meglio sorvolare. E quando la trama s’incardina nella ghost story si salvi chi può. E non perché l’apertura al fantastico sia di per sé deprecabile, ma perché Sparling la sfrutta a meri fini consolatori e, soprattutto, incapace di lasciare alcunché al giudizio e all’opinione dello spettatore, svilisce l’inestirpabile mistero delle problematiche affrontate con spiegazioni, astruse e dozzinali al contempo, attraverso le quali tutto, drammaturgicamente, torna. La trasferta nipponica poteva rappresentare l’occasione per aderire alla saggezza del kōan e abbandonarsi serenamente ai paradossi del cosmo. La sceneggiatura, invece, decreta la sconfitta della ragione scientistica per mano di una sapienza più antica e soprannaturale (Arthur aveva torto, ma questo, francamente, lo si capisce subito), eppure non rinuncia a un’organicità aristotelica a una consequenzialità cartesiana che riducono il film a un rebus enigmistico. La soluzione è a fondo pagina.

La foresta dei sogni - un fotogramma