A gennaio di quest’anno è scomparso Pierre Boulez, uno dei compositori più importanti del Novecento. In questo articolo proviamo a tracciare un percorso all’interno della sua opera.
In molti casi la musica contemporanea procura al neofita dei problemi di approccio. A patto che non le si neghi subito qualsiasi qualità, la musica cosiddetta “post tonale” non offre la stessa familiarità della musica del XIX secolo. Ben lungi dall’essere una sua qualità di natura, come pretendono certe teorie più o meno reazionarie, questa estraneità è il frutto di una condizione storica. Dopo Mahler, in effetti, avviene una specie di crollo delle certezze nella cultura del Novecento, e in modo progressivo ma inesorabile la musica – come avviene anche nelle altre arti, si pensi all’astrattismo- si apre a nuovi universi sonori. Nonostante ciò sarebbe sbagliato pensare che la contemporanea sia priva di qualsiasi fascino. Al contrario, il suo potere seduttivo le deriva in parte dalle libertà che si concede, così come dai nuovi criteri organizzativi che ha saputo ricavare dal tramonto della tonalità. Per quanto riguarda entrambi gli aspetti, la seduzione e il metodo, Pierre Boulez (1925-2016) rimane un compositore esemplare. Se la sua musica può catturare in modo altrettanto spontaneo e irriflessivo di, poniamo, un concerto di Schumann o di Rachmaninov, ciò avviene a patto che l’ascoltatore sia entrato nel gioco sonoro e abbia imparato ad orientarsi e a trarre un certo diletto dal percorso che gli viene offerto. Ma esiste anche la possibilità di giungere ad apprezzare Boulez per altre vie, più meditate e meno sauvages. Boulez, infatti, è stato un importante critico musicale e i suoi scritti costituiscono una vera miniera sia per gli studiosi che per gli ascoltatori dotati di una certa curiosità[1]. Come spesso avviene nelle vite dei grandi compositori, il rapporto con il passato ha generato per Boulez sia una forma di rivolta che di riflessione critica. Di rivolta, dal momento che si trattava per lui come per i suoi contemporanei (Luciano Berio, Bruno Maderna, Stockhausen e altri) di rovesciare certi presupposti estetici e di proporre un modo di comporre che sapesse ripartire dal linguaggio seriale di Anton Webern (1883-1945), lasciandosi dietro altre formule considerate ormai vetuste (Stravinskij, Schoenberg, alcuni aspetti della musica di Berg). Di riflessione critica, visto che Boulez è stato, oltre che compositore, un direttore d’orchestra e lo studio delle partiture era per lui e per i suoi allievi una costante fonte di apprendimento. A queste due qualità occorre aggiungere il suo magistero didattico e un’attività di ricerca che ha portato alla fondazione dell’IRCAM (1977) a Parigi, oltre che dell’Ensemble Intercontemporain. Accanto all’attività concertistica, Boulez ha affiancato quella di studioso, attento ad ogni opera che potesse essere una fonte da cui trarre sia godimento estetico che idee compositive. Comporre, in fondo, non è mai un’attività così originale come si crede: anche la forma più personale porta con sé il ricordo di altre epoche o, semplicemente, l’esperienza dell’ascolto. Rileggere gli scritti di Boulez, quindi, può aiutare a comprenderne le traiettorie, i gesti più radicali (come il celebre manifesto contro Schoenberg)[2] o le simpatie più sorprendenti, come il discusso ritorno a Debussy, dopo i rigori un po’ grigi e aggressivi delle Sonate per pianoforte (il lettore può trovare una breve guida agli scritti di Boulez in questo articolo).
Il musicologo Jean-Jacques Nattiez è uno degli osservatori più attenti dell’opera di Boulez. In un capitolo del suo Il combattimento di Crono e Orfeo (Einaudi, 2004), mostra come Boulez prendesse posizione su più fronti allo scopo di tracciare il percorso della nuova musica. Per esempio, riteneva che il gusto neoclassico di Stravinskij non fosse la risposta adeguata all’evoluzione del discorso musicale, anche se le innovazioni ritmiche de La Sagra della primavera fanno ormai parte del bagaglio culturale del musicista contemporaneo[3]. D’altra parte, Boulez non condivideva nemmeno “la condiscendenza dei musicisti elettroacustici per l’edonismo delle sonorità, nella misura in cui essa rivela la loro incapacità di costruire un linguaggio e di risolvere i problemi del concerto”. Inoltre, osserva sempre Nattiez, “rifiuta il teatro musicale, l’improvvisazione, dal momento che al caso puro preferisce il caso controllato, cioè una serie di percorsi possibili”. Senza entrare nel merito specifico della musica aleatoria, si può dire che Boulez rifiutava, allo stesso tempo, il culto del passato – un atteggiamento tipico anche della cultura postmoderna- e la mancanza di forma di un linguaggio d’avanguardia che, volendosi libero da tutto, non sembra offrire altro che dispersione condita con speculazioni più o meno filosofiche (John Cage). Abbiamo accennato poco sopra al periodo seriale di Boulez, vale a dire all’eredità di Webern. Ma occorre aggiungere che si è trattato di un periodo e non di un credo assoluto, infatti Boulez ha contribuito a svecchiare il dibattito intorno alla musica dopo gli anni Cinquanta proprio partendo da un’autocritica del suo stesso lavoro di compositore “radicale”. Qui si colloca, per esempio, un certo pentimento a proposito di Schoenberg e di Alban Berg, compositori che Boulez contribuirà a fare conoscere come direttore d’orchestra (celebre, per esempio, l’incisione discografica del Pierrot Lunaire di Schoenberg con l’Ensemble Intercontemporain).
Infine, che cosa si può consigliare ad un ascoltatore che volesse accostarsi a Boulez senza pregiudizi? In primo luogo, il consiglio che ci sentiamo di dare è quello di mettere da parte ogni aspettativa legata ai generi musicali e, quindi, di sospendere ogni giudizio storico per, semplicemente, lasciare fluire il suono e le sue forme. In particolar modo, questo approccio “immediato”, impressionistico, può essere favorito dall’ascolto di quelle opere che, sulla scia di una lettura sapiente di Debussy, non risentono più dell’impostazione più radicale (anni Cinquanta) e che, invece, sono caratterizzate da un certo fascino sonoro: Improvisation sur Mallarmé (1958), Cummings ist der Dichter per coro ed ensemble da camera (1970), Le visage nuptial per soprano, contralto, coro femminile e orchestra (1957-59), Le Soleil des eaux (1965). Non è, forse, un caso che qui Boulez riscopre anche il valore della voce e del testo poetico, ma senza concedere nulla al lirismo o a qualche ripiegamento romantico sulla vocalità. Al contrario, le soluzioni applicate al coro e alla strumentazione suonano aderenti all’epoca estetica in cui sono state scelte. Questo secondo periodo che culminerà dal punto di vista orchestrale in un’opera come Rèpons (1980-84), è anche caratterizzato dalla riscoperta, da parte di Boulez, della poesia (René Char, Mallarmé, E.E. Cummings). Forse soltanto quando si è superato il primo approccio attraverso le opere si può apprezzare meglio la cultura musicale di Boulez, uno degli ultimi compositori che hanno saputo pensare la musica nel suo sviluppo storico, organico, integrando lungo il suo cammino i capitoli di una lunga tradizione con le necessità del nuovo e dell’inaudito.