I lettori più attenti e affezionati di FucineMute probabilmente se ne sono accorti, anche se il fatto non ha avuto grossa rilevanza al di fuori del settore: uno dei nostri più apprezzati collaboratori, Dario Gigante, ha pubblicato il suo secondo romanzo, Fior della tua pianta, uscito lo scorso giugno per Arpeggio Libero.
Impieghiamo più di sei mesi a pubblicarne una recensione perché non è compito facile, e se immaginerete che chi scrive è colei che ha estratto la pagliuzza più corta non andrete lontano dalla realtà.
Fior della tua pianta è – in poche parole – un romanzo bellissimo, come si pensa non ne vengano più scritti e pubblicati, e che per la sua qualità e il suo linguaggio esatto e denso ha, a tratti, stupito anche noi, che Gigante lo conosciamo e lo leggiamo tutti i giorni o quasi.
Alla luce dell’arguzia delle recensioni che Gigante stesso pubblica su queste pagine e dell’oggettivo obbligo a usare solo espressioni positive per parlare del suo romanzo, capite bene, cari lettori, che recensire il suo romanzo è un’impresa dalla quale si esce mortificati come scrittori, perché costringe a misurarsi in modo ancora più diretto e sistematico con qualcuno la cui capacità di scrittura va ben oltre l’azzeccare due congiuntivi una similitudine ogni tanto, e come critici, perché per quanto ci si rifletta e si provi, non si riesce a tirare fuori niente di più arguto di un tema del ginnasio, fatto di sole notazioni positive e apprezzamenti al limite del fanatismo.
Bene che vada, insomma, a recensire Gigante fai la figura di quello che ha fatto la marchetta, e così procrastini, finché l’anno non finisce e ti chiedi quale sia stato il più bel libro letto nel 2015; allora speri che ti vengano le parole per spiegare come Fior della tua pianta batta per goleada i pochi altri libri passati dal comodino negli scorsi dodici mesi, possibilmente senza sembrare una fan di Springsteen che parla di Born to Run.
Fior della tua pianta è un romanzo storico nella misura in cui è ambientato nella Trieste di fine Ottocento e, per brevi tratti, nella Roma del primo dopoguerra. Non è, però, “un grande affresco storico”, come solitamente vengono definiti i polpettoni che indulgono – taluni con espedienti migliori di altri – nell’informare il lettore su come si vivesse all’epoca dei fatti narrati, affinché l’autore sfrutti tutta la ricerca che ha svolto trasformandola in pagine concrete.
Dario Gigante, di ricerca, ne ha fatta parecchia – vai poi a sapere se col preciso scopo di scrivere questo romanzo o in altre occasioni della sua vita affamata di cultura – e grazie ad essa restituisce un’atmosfera realistica del periodo, senza, tuttavia, lasciare che le vicissitudini storiche della città in cui la vicenda si svolge abbiano il sopravvento su quelle del protagonista.
Trieste c’è ed è ritratta non con il filtro idealizzato del pittore, ma con il realismo disincantato della fotografia; non ci sono eroi della patria e non ci sono ritrovi di artisti geniali, ci sono solo pochi esaltati cui la maggior parte della cittadinanza non presta attenzione e scrittori falliti che si ergono a critici.
Amedeo è un giovane che si innamora di Adele, una ragazza indipendente anche per i canoni moderni, con una famiglia stramba che permette all’autore di inserire anche un paio di situazioni leggere. Il sentimento per lei è profondo e intenso, e la delusione che ne riceverà lo segnerà al punto di fargli ricordare l’episodio anche ad anni di distanza, in un’altra città, con un’altra donna, in una vita appagata e di successo.
In questo senso – e ben più che per la vicenda a corollario della storia principale che coinvolge il personaggio della vedova Piazzan, con cui Amedeo ha le prime esperienze – Fior della tua pianta può dirsi un romanzo di formazione.
Fulcro dell’opera, però, è il rapporto con il padre e la paternità.
Amedeo dirà di essere sempre rimasto figlio e di non aver saputo diventare padre a sua volta per via del confronto castrante con il genitore; di non avere abbastanza vita in sé per poterla infondere.
Ciò che fa di questo romanzo una delle migliori letture del 2015 – e temo pure del 2016, se il nostro Dario non sta gestando qualcosa – accanto a una trama mai statica e una storia densa di chiavi di lettura e spunti di riflessione, è il linguaggio, che è quello preciso e pregnante di Gigante, tradotto nel registro di fine Ottocento.
La sensazione è che Gigante usi le parole come mazze da golf: le tiene tutte in una sacca, dalla quale sceglie con attenzione quella più adatta a far arrivare il messaggio al lettore, e poi le usa – anche quelle meno comuni – con sicurezza e forza, senza paura di sembrare eccentrico, perché alla fine della frase tu, lettore, sei una buchetta terrosa centrata in piena fronte da un missile di significato e tutto quello che riesci a pensare, davanti a un colpo così, è che non si poteva fare meglio.
Nelle centotrenta pagine scarse di Fior della tua pianta, Amedeo riflette sulla sua vicenda e sulla sua vita, sulla sua psicologia e sui suoi traumi con una lucidità e una profondità eccezionali anche per l’uomo adulto e forgiato dalle esperienze quale egli è diventato; figuriamoci, allora, di quali capacità analitiche deve disporre il suo giovane creatore.
Ma, a pensarci meglio, noi, in effetti, qua, ce lo figuriamo da un pezzo.