Può sembrare insolito trovarsi a recensire, nel 2015, una pellicola uscita nel 2006, ma la vita, a volte, è imprevedibile e consente di scoprire piccoli capolavori solo anni dopo la loro realizzazione. Sarà un po’ colpa della programmazione cinematografica, che privilegia film dall’incasso facile e trascura le opere impegnate, sarà un po’ anche colpa mia, che ho bisogno di trovarmi nello stato emotivo giusto per affrontare determinate tematiche, ma sta di fatto che Il labirinto del fauno del messicano Guillermo Del Toro è stata da me riscoperta solo di recente.
La ragione per cui sento il bisogno di scriverne è l’insolita atmosfera che pervade il film dall’inizio alla fine e l’abilità con cui il regista fonde realtà e fantasia riallacciandosi a un tragico periodo della storia spagnola.
Siamo nel 1944, sotto la dittatura di Francisco Franco, e in un paese in cui la libertà è solo un lontano ricordo, la dodicenne Ofelia, dal nome quasi profetico, si trasferisce con la madre, ormai in procinto di partorire, nella casa del patrigno, capitano dell’esercito sadico e torturatore. Nel corso della sua permanenza, la ragazzina, assidua lettrice di libri fantasy, scopre un labirinto nel quale, nella sua immaginazione, abitano alcune fate al servizio di un fauno. Con il procedere della storia, la dura realtà vissuta dalla bambina – con la madre allo stremo delle forze a causa della gravidanza difficile, il patrigno che espone le sue teorie di uguaglianza tra gli uomini (i ricchi hanno diritto a vivere nello spreco e nel lusso, i poveri devono morire di fame), gli oppositori al regime che cercano disperatamente di sopravvivere e di combattere i soprusi – si sovrappone sempre di più al suo mondo fantastico, inducendola a operare delle scelte che la porteranno a una maggiore consapevolezza della situazione e la spingeranno a un gesto estremo.
Guillermo Del Toro non cerca di accattivarsi il pubblico delle adolescenti di oggi, quasi tutte glitter, smartphone e ostentata superficialità, ma al contrario si pone l’obiettivo di mettere in scena la cruda realtà, una realtà difficile da digerire anche nel suo lato fittizio. Le scene fantasy, infatti, in cui Ofelia interagisce con il fauno, non hanno nulla di rassicurante, e lo stesso interlocutore della bambina ha un aspetto tutt’altro che confortante. Ne consegue che il regno immaginario in cui la ragazzina si immerge riflette alla perfezione la cupezza del contesto storico in cui si trova a vivere: è come se Ofelia fosse un’Alice attraverso lo specchio costretta a combattere, anche nell’irrealtà, contro quelle paure che tormentano la sua adolescenza. Niente fronzoli, bacchette magiche o principi azzurri, dunque, ma rospi giganti che vomitano bile, sanguisughe che si attaccano al viso, mostri divoratori di carne umana con gli occhi nelle mani e infinite quantità di melma in cui sprofondare fino al collo. Viene da chiedersi, ed è in effetti questo il quesito che il regista messicano vuole sollevare nello spettatore, quale sia la differenza tra un mondo fantastico in cui l’angoscia regna sovrana e la vita vera della protagonista in cui la gente muore sotto tortura o partorendo tra terribili sofferenze. La verità è che la differenza non c’è, perché ognuno di noi, come Ofelia, proietta nei propri sogni le esperienze che si trova costretto ad affrontare quotidianamente.
La bambina vede se stessa come una principessa destinata a superare dure prove pur di poter tornare in quel mondo magico a cui appartiene, e da cui è stata strappata. Lo spettatore, nell’assistere alle sue disavventure, vede una dodicenne che cerca di trovare una spiegazione alla crudeltà che la circonda, e che di quella stessa crudeltà finisce per restare vittima, pur rendendosi portatrice di un messaggio di speranza.
I personaggi secondari contribuiscono all’arricchimento dell’universo creato da Guillermo Del Toro, dimostrandosi di volta in volta fragili e coraggiosi, menefreghisti e misericordiosi. Vedesi ad esempio Carmen, la madre di Ofelia, che non mostra alcun moto di ribellione nei confronti del marito violento, ma anzi invita la figlia a comportarsi da brava bambina sottomessa perché dalla vita non ci si può aspettare nient’altro. E vedonsi anche le figure di Mercedes, la governante della casa, e del dottor Ferreiro, medico personale del capitano, che pur nella consapevolezza dei rischi che corrono portano avanti la loro lotta contro la dittatura e non smettono mai di sperare in un futuro di rinascita per il paese.
Il labirinto del fauno non è un film fantasy, nel senso proprio del termine, e non è nemmeno un film horror, è un film che insegna l’importanza dei valori, degli ideali, della fantasia e dello spirito di sacrificio. È un film che insegna l’importanza della vita, innanzitutto, e che dimostra quanto sia fondamentale imparare a pensare con la propria testa ed essere fedeli a se stessi senza mai temere le conseguenze.