Mia madre - un fotogrammaAlla tetraplegia spirituale, creativa, esistenziale di soggetti che, a seguito di traslochi identitari più o meno ingenti, si trovano paralizzati dalle sue stesse paturnie, Nanni Moretti ha abituato il pubblico, allenandolo a rintracciare l’autore nel polivoco elenco di alienati interiori e sociali che abitano il suo cinema e poco importa se si presentino come un giovane esponente della controcultura o un docente impreparato all’amore o un sacerdote di borgata o il dirigente di un Partito Comunista al declino o il Vicario di Cristo, se abbiano o meno la faccia del regista. Eppure, in Mia madre, l’artista compie un passo in più. Un salto di genere. Non narrativo, ma sessuale. E non solo. Perché sarebbe facile affermare che Nanni diventa Margherita. In realtà, un più complesso negoziato tra realtà e finzione è in atto, una più sottile riflessione sui compiti dell’attore e sul suo rapporto con il personaggio. E i nomi ne sono una spia. Margherita è Margherita. Buy. Che non si limita ad assumere le inquietudini di Moretti e il peso delle implicazioni autobiografiche dell’opera, ma ripropone, al contempo, un personaggio già molte volte affrontato (e sempre magistralmente): la donna sull’orlo di una crisi di nervi. O, forse, già precipitata. Mentre Moretti si ricava la parte di Giovanni (!), il fratello protettivo e conciliante, sottraendosi così al sedimentato cliché di se stesso.

Che Mia madre mediti sulle potenzialità etico-estetiche della settima arte, come sui suoi meccanismi costruttivi, è confermato, a un livello più appariscente, dal fatto che costituisce l’ennesimo lungometraggio metacinematografico di Moretti. Margherita è infatti una regista (guarda un po’…) impegnata a dirigere un film sull’occupazione di una fabbrica (e un film che, dal didascalismo dei dialoghi e dalla retorica di certe scene, non sembra eccelso). L’attore statunitense Barry Huggins, planato sul set per impersonare il magnate che dovrebbe rilevare l’azienda, le crea un cumulo di problemi. La relazione con il compagno Vittorio, attore anch’egli, si interrompe. La figlia Livia rischia di essere rimandata in latino. Ma, soprattutto, Margherita e il fratello Nanni stanno perdendo la loro madre, Ada, insegnante liceale in pensione, la quale giace in un letto d’ospedale tra smarrimenti cognitivi e picchi di disarmante lucidità. Margherita tenta di rescindere la vita privata dal set, ma non sempre ciò le riesce. Tutto, intorno, a lei, pare confondersi in una macelleria di sensi e significati. E mentre, alla conferenza stampa, i giornalisti la bersagliano con le solite, pompose domande, lei si ritrova a considerare di non capire più niente di quanto la circonda…

Mia madre - un fotogramma

Un po’ come Woody Allen con l’Harry del suo film, cioè con se stesso, anche Moretti fa Margherita a pezzi e la frammentazione dell’individualità della donna si traslittera in una scomposizione quasi cubistica di Mia madre sul piano bidimensionale dello schermo. La realtà fenomenica si intreccia alle sequenze oniriche, alcune particolarmente inquietanti, come quella dell’allagamento di casa di Ada che, per la sospensione con cui è resa, lascia allo spettatore il dubbio che si tratti solo di un incubo. Il presente si mescola ai flashback del passato. L’emissione fisica della voce alla voice over del pensiero. E, naturalmente, il film al film nel film. Il tutto in un continuo alternarsi di effusioni e di respingimenti tra interiorità ed esteriorità, che definisce l’architettura diegetica dell’opera come una delle più audaci nella filmografia del regista. È la terza sceneggiatura, questa, che il filmmaker scrive con Francesco Piccolo e il sodalizio sembra funzionare. Se Margherita ripete al suo cast di voler vedere l’interprete “accanto al personaggio”, accanto ai personaggi di Moretti si assiepano talmente tante istanze psicologiche ed emotive che non si può non concordare con Margherita quando manifesta, su tutto, un dubbio di dimensioni cartesiane.

Nanni Moretti

Quella di Moretti, si sa, è una cinematografia di genitori e figli. Già in Io sono un autarchico l’autore si ritraeva come padre (e aveva ventitre anni!), per poi mostrare all’Italia intera il figlio neonato, Pietro, in Aprile. E quante volte, lo stesso autore è stato figlio, spesso insofferente alle logiche dei genitori? Anche adesso, elaborando la dolorosa perdita della madre, quell’Agata Apicella che aveva donato il cognome al Michele delle prime pellicole, e che, come l’Ada interpretata da Giulia Lazzarini, esimia erede di Piera Degli Esposti e Margarita Lozano, era professoressa alle superiori, Moretti torna a indagare (e rivivere) configurazioni affettive a lui care. Con la saggezza della maturità. Il figlio arrabbiato di un tempo riscopre oggi i genitori a lungo rampognati (in battibecchi che hanno fatto epoca). E, in fondo, misconosciuti. Nell’indice inesauribile delle cose che Margherita realizza di non aver capito, c’è, infatti, anche sua madre. Della quale ha sempre avuto un’immagine parziale. Se La stanza del figlio era la storia dell’introiezione di un lutto improvviso, Mia madre è, piuttosto, la propedeusi a una scomparsa annunciata che, pur nella frastornante confusione dell’esistenza, spiana, comunque, un viatico di conoscenza. La sacerrima essenzialità delle musiche di Ärvo Part evoca il mistero verso il quale camminano non solo Ada, ma soprattutto Margherita e Giovanni. Un mistero, a suo modo, illuminante.

Tale è il controllo registico che la drammaticità non perviene mai a esiti sciropposi o lacrimogeni. E si ride anche molto, perché la tempra umoristica di Moretti non ha perso vigore. La scena in cui Barry (un travolgente John Turturro), ciak dopo ciak, non riesce a pronunciare la battuta come da copione non è inferiore alla gag di Valentina Cortese che per tre volte apre la porta sbagliata in Effetto notte di Truffaut. E non sappiamo se “rompi almeno un tuo schema” entrerà nel linguaggio corrente come le più celebri minima moralia di Moretti, ma è certo che Mia madre rappresenta l’ennesima vetta su cui l’autore ha piantato la sua bandiera. A Cannes saprà farsi valere.