Per chi conosce le programmazioni del Palais de Tokyo, il titolo dell’esposizione Il confine dei mondi suona come una dichiarazione di intenti. Fondato nel 2002 come prima grande istituzione parigina dedicata alla sperimentazione artistica contemporanea, il museo ci ha infatti abituati a un arte non convenzionale, non necessariamente accreditata, che sonda i bordi del contemporaneo per identificare nuovi linguaggi, esperienze sensoriali, installazioni. In costante comunicazione con gli universi prossimi della musica, del cinema, della moda, il Palais de Tokyo ha fatto dello straordinario e dello sperimentale la sua missione., accettando il rischio di deludere un pubblico a volte attonito di fronte a opere che non gli parlano, e superando tale rischio valorizzando la mediazione culturale e la presenza di mediatori che accolgono i visitatori in ogni sala.
Il confine dei mondi potrebbe suonare quindi come una tautologia concettuale, e in un certo senso lo è, un accattivante manifesto che invita all’esplorazione sistematica dei confini dell’arte. In questo caso, si tratta di tutte quelle produzioni che sono a cavallo tra pratiche e saperi apparentemente esterni al territorio artistico, come scienza, tecnologia, sociologia, politica.
All’inizio della mostra troneggia una frase di Duchamp:
Possiamo fare delle opere che non siano arte?
Ventidue creatori indagano lo spazio interstiziale tra arte e invenzione, sfidando l’attitudine moderna che spinge verso la razionalizzazione e la separazione dei saperi. Se alcune opere risultano poco significative o non fanno che ripetere codici già noti (come gli abiti futuristi di Iris van Herpen, le mappe immaginarie di Jerry Gretzinger o i mostri chiomati di Charlie Le Mindu), altre installazioni suscitano sorpresa e partecipazione.
Tra natura e cultura
È il caso, ad esempio, di Bridget Polk (nata a Portland nel 1960), creatrice di sculture impossibili, pile di rocce e mattoni dall’equilibrio precario che non smettono di frantumarsi al suolo rompendo il silenzio della sala. L’artista è obbligata a ricominciare il proprio lavoro da capo di fronte agli occhi pazienti del pubblico, che applaudono alla nascita di ogni nuova effimera colonna. Le opere si manifestano al contempo come l’esplodere di un atavico paesaggio naturale e la precisa intenzione della speculazione culturale.
Un gioco pericoloso
Game of states è un gioco creato a Varsavia nel 1945, durante il periodo di occupazione socialista della Polonia. Come i più noti social network contemporanei, è stato creato da alcuni giovani per divertimento, per poi svilupparsi nel più grande segreto: complotti diplomatici e offensive militari esplodevano di appartamento in appartamento e generazione in generazione. La monarchia parlamentare “Tiny Empire”, il regno social-democratico di “Niam-Niam”, la dittatura comunista delle “Repubbliche materialiste socialiste unite” e la “Repubblica di Polonia” si sono così arricchite di personaggi politici, spie, manipolazioni mediatiche… Un gioco che, in quanto opera artistica, esibisce tutta la sua portata catartica, ribelle e liberatoria. Il confine è sottile non solo tra dimensione ludica ed estetica, ma anche tra fatti storici e loro successive ricostruzioni e trasformazioni.
Architetture di vapore
Carlos Espinosa (nato nel 1924, vive e lavora in Cile) è l’inventore delle atrapanieblas, letteralmente “trappole di vapore”, architetture leggere e complesse che dal 1960 hanno invaso il deserto di Atacama, in Cile, per poi essere riutilizzate nelle regioni più aride. Questo modello permette di “catturare” le particelle di acqua esistenti nell’atmosfera e trasferirle là dove ve n’è più bisogno. In un periodo in cui l’umanità si proiettava verso lo spazio, Espinosa ha tenuto gli occhi fissi sulla terra, alla conquista di spazi dove la vita organica riusciva a fatica ad insediarsi. La sua tecnologia, utopistica e affascinante, ha permesso di sviluppare nuove soluzioni di coabitazione uomo e ambiente, indicando che i nuovi territori di ricerca non sono per forza quelli ancora da scoprire; tutto dipende dallo sguardo di chi li osserva, proprio come nel mondo dell’arte spesso accade.
È questa forse l’unica risposta all’ironica domanda di Duchamp.