Durante gli Oscar che hanno premiato Birdman come miglior film e miglior regia, c’era chi lodava la scelta di un piccolo film contro le usuali opere grandiloquenti che vincono all’Academy. Eppure Birdman è un finto piccolo film. Un film che sembra fare di tutto per opporsi a quella famosa massima giapponese che consiglia di trattare le cose importanti con leggerezza e quelle poco importanti con serietà. Il film, lo ricordiamo, racconta di un attore hollywoodiano ormai sull’orlo del fallimento, noto al pubblico per aver interpretato in passato un supereroe, Birdman appunto. L’attore, interpretato da Michael Keaton – protagonista dei primi Batman, per intenderci, il che ci dà già un indizio sul tono meta-cinematografico del film – tenta di riconvertirsi a Broadway con una pièce di Chandler.
Gli interventi a dir poco ingombranti del suo alter-ego Birdman, uomo alato e sorta di coscienza di Keaton, sono il simbolo più manifesto di un racconto fatto di cliché. Cliché intellettuali e autoreferenziali che piacciono, certo, agli attori o autori di cinema e teatro, ma che restano piuttosto inconsistenti per il pubblico. Il cliché dell’opposizione manichea tra Hollywood, West Coast – il cinema commerciale – e Broadway, East Coast – il teatro intellettuale che non riesce a uscire dai propri orizzonti, per esempio. Quest’ultimo è rappresentato da una critica del New York Times che fa il bello e il cattivo tempo a Broadway e che, naturalmente, detesta Keaton, e annuncia di volerlo distruggere, indipendentemente dalla riuscita del suo adattamento, solo per poter attaccare ciò che lui stesso rappresenta: i soldi di Hollywood e lo spazio che avrebbe potuto lasciare a qualche autore sconosciuto.
Ma è un cliché anche quello della difficoltà a discernere realtà e rappresentazione, ruolo reale e ruolo di finzione. O della bella figlia depressa – a causa, ovviamente, delle numerose assenze del padre quando era piccola. Della moglie divorziata che ogni tanto torna a dare consigli spassionati. Anche l’arrivo di Edward Norton e la sua lezione di teatro sono un cliché già visto centinaia di volte. Mostrando retoricamente come un vero attore reciterebbe un dialogo, la sequenza di Norton riesce, tanto che al cinema qualcuno si lascia scappare un applauso, ma riesce in quanto retorica, fittizia, vittima delle stesse logiche che sembra voler mettere in questione.
Ma il problema di Birdman non è nemmeno il soggetto, che potrebbe essere appassionante se trattato con sobrietà. La difficoltà che si ha nell’entrare nel gioco di ruoli e di specchi di Iñárritu proviene senz’alcun dubbio dalla pesantezza della messa in scena, da quel continuo sottolineare, rinvigorire pedantemente dei propositi che sono manifesti fin dall’inizio.
In Birdman la presunta virtuosità dei dialoghi e della forma paiono manieriste proprio per la loro inutilità. Il problema dunque è la pedanteria, la pesantezza del tutto. Perché ad esempio optare per un unico piano sequenza? A cosa serve una magia del digitale senza una ragione che sia direttamente legata al racconto oppure una reale sfida cinematografica? In Birdman il digitale permette una performance senza performance, e i raccordi tra sequenze non sono tra l’altro neanche così ben nascosti. Non c’è sfida, né senso nel raccontare un racconto identitario con l’angoscia di un film d’azione. La stessa mancanza di senso sembra averla la batteria invadente che fa da sottofondo al film – con ovvie, come non pensarci – apparizioni dei batteristi in scena (certo, la musica extradiegetica che diventa a volte diegetica, giochino tanto vecchio quanto stucchevole). Ma anche il gioco del teatro nel teatro, del cinema nel cinema, di Michael Keaton che, naturalmente, non è stato scelto a caso trattandosi dell’attore del primo Batman, quello di Tim Burton, in parte dimenticato da allora se non per qualche film marginale.
È come se Iñárritu avesse tentato di cimentarsi in un’opera tipicamente newyorchese e intellettuale con la sottigliezza di una soap opera messicana. Ogni lato formale o narrativo del film sembra eccessivo, o banale, o entrambi. E la narrazione, dopo un inizio che perlomeno ha la virtù del ritmo, si sfilaccia fino a rendere le due ore del film una durata interminabile. Birdman è allora un meta-eroe, senza dubbio e come tutti hanno giustamente rimarcato, ma un meta-eroe pedante e ripetitivo, che invece di librare nell’aria dell’immaginario come sembra suggerire la fine del film, ci impedisce di spiccare il volo.