È un corpo a corpo tra il pittore e la tela, quello che mostra Mr. Turner, ora sensuale, ora violento. Il colore s’impasta con la saliva sputata dall’artista. E l’artista, nell’affannosa cattura dell’istante, insegue le flessioni della luce fendendola con la sua massa somatica trepidante. La fisicità della pittura è di casa al cinema: si ricordi, soltanto, Lezioni di vero, l’episodio di New York stories diretto da Martin Scorsese, con un materico Nick Nolte a dominare il campo. Ecco, Turner va addirittura oltre.
Il diciannovesimo secolo, per giunta ricostruito con la stessa precisione scenografica e costumistica, aveva già fatto da sfondo, nella filmografia di Mike Leigh, usuale cantore dell’ordinaria semplicità della middle class o del proletariato contemporanei, in Topsy-turvy. Ma se la pellicola sul librettista William Gilbert, il compositore Arthur Sullivan e la genesi di The Mikado rappresenta soprattutto un’ariosa sorpresa e una dilettevole curiosità, un esempio di sapido decorativismo che non aggiunge alcunché di fondamentale alla carriera del regista, in Turner Leigh riafferma, in costume, la sua poetica del quotidiano e il consumato talento di psicologo e fabbro di personaggi memorabili. L’opera, infatti, non racconta una storia e non documenta un’esistenza, ma, concentrandosi, senza il tedio di cartelli esplicativi e indicazioni cronologiche, sugli ultimi venticinque anni di vita di Joseph Mallord William Turner, il pittore inglese che, perito nel 1851, spinse le proprie ricerche luministiche fino ad anticipare l’Impressionismo, tra successo mercantile e incomprensione critica, esplora un’interiorità e umanità controverse alle prese con il succedersi dei giorni e le imprevedibili gioie, i tenaci dolori che essi recano. Rinunciando a una declinazione romantica del binomio genio-sregolatezza, il cineasta britannico mette in scena, con sospetto di identificazione, un uomo contraddittorio proprio come Turner definiva il fenomeno proteiforme del colore, ora sensibile, appassionato, generoso, ora gretto, forastico, ingrato. Un araldo di eterea bellezza e un bruto lercio e grugnante, custode di segreti e bugie familiari non propriamente onorevoli, come le due figlie di fatto abbandonate. Legato più al padre che alla madre, come il Gilbert di Topsy-turvy interpretato da Jim Broadbent, inseparabile dalla serva Hannah, Diodata verghiana in foggia anglosassone, sulla quale sfoga inconsulti accessi d’eccitazione sessuale, “Mr. Billy” donerà la parte migliore di sé alla vedova Sophia, instaurando con lei un’amicizia e una complicità premurose, fino a morire al suo fianco e con in bocca l’affermazione che “il Sole è Dio”.
La consuetudine di Leigh a non stendere la sceneggiatura asserragliato nel fortilizio della sua fantasia ma a costruire il marchingegno drammaturgico nel confronto costante con il cast si manifesta nel trasporto con cui l’habitué Timothy Spall, Prix d’interprétation masculine a Cannes nel 2014, si impossessa del protagonista, delle sue ubbie, delle sue belle speranze spesso deluse, intuendo con lui le potenzialità espressive di un panorama, piangendo con lui davanti alla commedia satirica che lo sbeffeggia. E, in genere, la prassi di lavorare con attori con i quali è, ormai, confidenziale il rapporto dà frutti saporosi in un film che più che recitato, sembra vissuto posa dopo posa. Ed è sempre un piacere ritrovare tra le Dorothy Atkinson, i Paul Jesson, i Martin Savage, le due interpreti più caratteristiche della cinematografia del filmmaker (anche perché si tratta di due tra le migliori attrici europee): Lesley Manville, per una volta in un ruolo esente da nevrosi o petulanza o untuosità, quello della poetica naturalista Mary Sommerville, che, in una magnifica scena, inizia Turner ai segreti fisici dell’arcobaleno, e Ruth Sheen, per una volta, invece, querimoniosa e recriminante, come poteva esserlo la madre delle figlie di William.
Componendo l’intero lungometraggio, quasi due ore e mezza alle quali, forse, non avrebbe guastato qualche scorciata, come un sussegguirsi di paesaggi pittorici e nature morte, nel rispetto di tutti i tòpoi della tradizione figurativa, dalle marine agli specchi negli interni a raddoppiare virtuosisticamente l’immagine, Leigh, aiutato dal fido Dick Pope, insiste fino allo stremo sulla continuità tra realtà e rappresentazione. Ed esemplare, in questo senso, è la scena in cui solo il movimento verticale della macchina da presa ci svela che il promontorio che stiamo ammirando non è un quadro, perché Spall sta arrancando a valle. Ma il discorso non si limita a Turner e non tende soltanto a celebrare la sua simbiosi con gli oli e i pennelli. L’occhio di Turner, per cui tutto è pittura, ogni smunto angolo dell’esistente, purché la luce gli conferisca un tono, non è troppo diverso, in fondo, dalla cinecamera di Leigh, per cui tutto è cinema, ogni insignificante riflusso della quotidianità, anche (anzi soprattutto) il meno spettacolare. Talvolta, è purtroppo la tecnologia a mettersi di mezzo: il momento in cui un Turner, tra l’incredulo e l’inorridito, si sottopone alla tortura di un dagherrotipo, deducendone che la pittura non potrà mai essere pareggiata, non può non farci pensare a quanto sofferto e tardivo sia stato il passaggio al digitale per Leigh.
Benedetto da quattro nomination ai Bafta Awards e quattro agli Oscar, Turner è un film complesso e abissale per cui, forse, una visione è poca cosa. Come per le tele dell’artista, in fondo.