Il mare appartiene all’arsenale iconografico di Francesco Munzi e ricorre, costantemente, in ogni suo film. Così in Saimir come nel Resto della notte. Spesso, anzi sempre, colto nell’abbandono iemale, nei grigiori e nel rigore di giornate di pallido sole, fotografato con luce perlacea da Vladan Radovic. E Anime nere non fa eccezione. Sono le acque pelagiche di un settentrione liquido e malfido quelle su cui punta la cinecamera in apertura. È il mare arcaico di un meridione terragno e insanguinato a frangere i suoi flutti sulla battigia, nel finale. Ondoso e freddo. Come la morte. E la vita, che, per Munzi, alieno al fatalismo del gangster movie canonico, è un conglomerato di scelte morali e responsabilità personali che determinano conseguenze e instradano su una certa via, invece che su un’altra, le sorti degli uomini. Nella pellicola d’esordio, la decisione del padre del protagonista di rendersi complice di un reato mostruoso lo conduceva alla rovina e, ancora una volta, la decisione del ragazzo di denunciare le malefatte del suo ambiente accendeva un fiammifero di speranza in un possibile riscatto. Nel Resto della notte, il furto di un paio di orecchini determinava una concatenazione di sciagure, tutte, però, legate ad atti di (cattiva) volontà. E in Anime nere, l’idea di Leo, giovane discendente di una schiatta criminale, di sparare contro le vetrine di un bar protetto dal clan antagonista per rivalersi dopo aver subito un torto, aziona una girandola di vendetta e morte.
Ispirandosi liberamente al romanzo omonimo di Gioacchino Criaco, Munzi compie dieci anni di regia con un lungometraggio scritto insieme a Maurizio Braucci, uno degli sceneggiatori più dotati sul mercato, e Fabrizio Ruggirello, una storia di ‘ndrangheta, di Calabria, d’Italia. Luciano, Luigi e Rocco sono tre fratelli di Africo, un paese dell’Aspromonte retto da leggi selvagge e delittuose. Il primo, padre dell’adolescente Leo, coltiva la terra, alleva il bestiame e, variante mediterranea del François Truffaut della Camera verde, pratica un assiduo culto dei defunti, deciso a ignorare, finché gli sarà possibile, le attività illecite a cui si dedica la famiglia. Il secondo gira il mondo per “affari”: narcotraffico. Il terzo, a Milano, conduce un’esistenza borghese riciclando il denaro guadagnato da Luigi. Lo sgarro di Leo costringerà tutti a ritornare ad Africo, ad assumersi le responsabilità del caso, ad adottare le dovute misure. Dovute secondo il codice della ‘ndregheta, naturalmente. E la spirale delle ritorsioni finirà con lo stritolare l’intera genia.
Anime nere è un film spigoloso e tagliente, come le rocce dell’Aspromonte, di una coerenza etica cristallina, di una bellezza poderosa, che non è passata inosservata alla recente Mostra del Cinema di Venezia, dove laudi e applausi si sono sprecati. Un’opera dura, caparbia, coraggiosa, come la sua troupe, che ha lavorato a contatto con la realtà ostica di Africo, uno dei luoghi a più alta concentrazione delinquenziale della penisola. Il dialetto calabrese, di gran lunga l’idioma più parlato dai personaggi, come l’albanese in Saimir e il romeno nel Resto della notte, diventa strumento ermeneutico di una cultura, porta d’accesso a una civiltà feroce e pre-moderna, a una zolla del Paese che sembra immune al progresso e che, forse, rappresenta molto più di quanto si creda la nazione che la comprende.
Sarebbe facile scorgere nei fiumi ematici che scorrono copiosi il retaggio del teatro tragico, greco o shakespeariano, ma, da capo, non è il destino a governare dall’alto i mortali. Sono, ancora una volta, le scelte soggettive. Di chi abbraccia le armi. Di chi commissiona le stragi. Di chi non vuole vedere (ed esemplare, , in questo senso, oltre a Luciano, è anche la moglie nordica di Rocco, interpretata da Barbara Bobulova). Di chi si rifugia nell’omertà. La colpa si estende a tutti. Nessuno è innocente.
E se Maurizio Porro, sulle colonne del Corriere della sera, rinviene nella vicenda dei tre fratelli l’archetipo di, guarda caso, Tre fratelli (dove, tuttavia, a soffiare era più il vento del terrorismo politico che quello, parimenti assassino, della mafia), a voler scovare a ogni costo, in quest’ultima creatura di Munzi, una discendenza dall’immenso Francesco Rosi, bisognerebbe probabilmente guardare a La sfida, in cui lo sfregio attuato dal bandito napoletano Vito nei confronti di un influente boss della camorra, ingranava la marcia di una macchina omicida e senza pietà. Perché si può scegliere di vivere, ma anche di morire.