Il giovane favoloso, accolto da copiosi applausi alla settantunesima Mostra del Cinema di Venezia, chiude in recinti concentrici due dei pascoli su cui l’intelletto di Mario Martone , tra i lussureggianti prati dello scibile, ha più avidamente brucato: Giacomo Leopardi, di cui il regista partenopeo ha portato sul palcoscenico le Operette morali, e, cerchio più esterno, il diciannovesimo secolo nella più ricca gamma delle sue espressioni ideali, culturali e storiche, come testimoniano, ad esempio, l’Oberto, conte di San Bonifacio allestito alla Scala, la recente messa in scena, al Rossini Opera Festival di Pesaro, del monumentale Aureliano in Palmira o l’adattamento di Carmen di Prosper Mérimée che debutterà a febbraio allo Stabile di Torino. O ancora, teatro a parte, la rassegna di passioni e retroscena risorgimentali dell’osannato Noi credevamo.
Il giovane favoloso è sì un biopic su Leopardi, ma anche una ricognizione dei fermenti e dei tormenti di un Ottocento che scalpita oltre i confini dello Stato della Chiesa dove il poeta nacque e crebbe, mentre la Restaurazione soffoca ogni impulso rivoluzionario, lo spettro del 1789 si aggira ancora per l’Europa e l’Italia matura sogni patriottici di unità.
Si può presentare un film cominciando dalle cadute di stile? Il caso specifico autorizza a procedere, perché se non sempre brilla, anzi spesso contraddice gli elogi tenorili che ha ricevuto, Il giovane favoloso, un po’ come il suo protagonista, supera le proprie debolezze ricomponendole in un progetto artistico meritorio. Che alcune sequenze appaiano telefonate e alcuni dialoghi suonino assai didascalici è un appunto prevedibile, nei confronti di una pellicola siffatta. E, infatti, più pertinentemente possono essere rimproverate a Martone certe associazioni tra parola poetica e immagine che finiscono per scadere nella clip illustrativa: nella sequenza dedicata alla Ginestra, il montaggio di colonna sonora e visiva è ridondante e addirittura puerile. Così come non persuadono i momenti in cui, derogando al sostanziale realismo dell’insieme, il filmmaker si abbandona a interludi onirici alla Ken Russell, senza possederne, però, la virtus visionaria: la “raffigurazione” del Dialogo della Natura e di un Islandese sfiora pericolosamente il cattivo gusto.
Eppure, se Noi credevamo non era alieno all’effetto-sussidiario, Il giovane favoloso persegue la sua lodevole missione pedagogica e avanza il suo invito alla riflessione emozionando e divertendo attraverso un ritratto filosofico e umano di strabiliante complessità, sul modello del Renato Caccioppoli di Morte di un matematico napoletano, ma molto più sottile e accurato nelle notazioni psicologiche, nell’esplorazione interiore, nella scelta di colori e sfumature. Ed è così che la sceneggiatura dello stesso Martone e della moglie Ippolita di Majo, che attinge ai testi come all’epistolario di Leopardi e si modella sulla partecipe performance di Elio Germano, riesce ad affrontare una molteplicità di nodi biografici senza mai sacrificare l’individuo alla trama. Dell’inquieto Giacomo si ricostruiscono l’asfittica gioventù recanatese, la routine scandita dalle relazioni con i fratelli Carlo e Paolina e con il padre conte Monaldo e l’algida madre Adelaide Antici, l’amore “voyeristico” per Teresa Fattorini, il tentativo di fuga nottetempo, le intense amicizie con il letterato Pietro Giordani e l’esule anti-borbonico Antonio Ranieri, i soggiorni a Firenze, Roma, Napoli, Torre del Greco, le sospirose lusinghe dei salotti e l’incomprensione degli accademici, l’invaghimento per Fanny Targioni Tozzetti, la morte per colera. Ma anche il dissidio tra una smisurata ambizione teoretica e i falli della complessione fisica, gli accessi nervosi, gli slanci passionali e i ripieghi melanconici, la coerenza morale e il disperato bisogno d’affetto, le concezioni sovversive, l’anticonformismo e, al contempo, la tragica, umiliante soggezione economica a una famiglia erudita ma codina, il cui bibliofilo patriarca esalta la libertà pur che questa non pretenda di confutare l’esistenza di Dio o di revocare la fedeltà a papi e legittimi sovrani.
Grazie a un cast di temprato mestiere, nel quale spiccano Massimo Popolizio come ombroso Monaldo, Valerio Binasco come seducente Giordani e Paolo Graziosi come atarassico Carlo Antici, a un indiscutibile sapienza scenografica e alla bellezza pittorica di alcune inquadrature (lungi, tuttavia, dalla cartolina), Il giovane favoloso si lascia ammirare con la giusta sicumera. E lo spettatore più assiduo di Martone può anche riconoscere, nel lungo capitolo d’ambientazione vesuviana, il sigillo del maestro nell’evocazione di una Napoli sanguigna, miasmatica, malapartiana, nella quale vita(lismo) e morte si concatenano come moti inseparabili della carne e dell’amore. Molesto.