Gli accoliti di Von Trier avranno temuto il peggio, per il piccolo Marcel, colta la sfacciata autocitazione. Antichrist, per intendersi. Creatura innocente su balcone a rischio precipitazione, sulle note haendeliane di Lascia ch’io pianga. Incustodito da mamma Charlotte Gainsbourg (sempre lei) che, risucchiata all’epoca da un focoso amplesso con l’avvenente marito, qui è invece fuori casa a farsi randellare da un sordido gigolò per clienti masochiste, tale K (kafkismo?). Ma, sorpresa! Papà Shia LaBeouf rientra in tempo per salvare il pargolo. Sospiro di sollievo.
A dire il vero, Nymphomaniac vol. II versione censurata (figuriamoci l’integrale…) rigurgita citazioni e riferimenti più o meno dotti con un rincaro rispetto al primo che, effetto saturazione, ne decreta una non umiliante inferiorità. E tuttavia, come nel caso del bimbo in bilico, Lars Von Trier si rivela capace di regalare picchi emotivi insperati e insperate motivazioni per proseguire la visione. Più del Seligman di Stellan Skarsgård, l’autore sfoggia cultura e gioca agli indovinelli con il pubblico. Se molto tarkovskjiana è la scena della levitazione di Joe in mezzo a una natura divina e avvolgente (ci sarà pure un perché dietro ai ringraziamenti al maestro russo nei titoli di coda), lo stile dell’icona appesa nel tugurio del vecchio è lo stesso di Andrej Rublëv (!). Le novelle erotiche che Seligman sostiene di aver letto compongono, guarda caso, la “trilogia della vita” di Pasolini: Decameron, I racconti di Canterbury e Le mille e una notte. Le considerazioni di Joe sulle pistole, che non sarebbero, di per sé, arnesi più pericolosi o infidi di altri, è lo stesso sermone che tiene Alan Ladd a Jean Arthur nel Cavaliere della valle solitaria. Si assommino, per non privarsi di nulla, la digressione su Messalina e la Gran Meretrice babilonese (per giunta, evocate con una soluzione formale non molto felice) e il paradosso zenoniano di Achille e la tartaruga, allotropo filosofico dell’orgasmo inseguito ma non raggiunto (sic). Il tutto condito da Wagner e Beethoven e conseguenti discettazioni musicologiche. Tanto, troppo, per non causare qualche problema di deambulazione al film, che spesso s’intona all’umore catacombale della protagonista. Eppure, come ignorare il cineasta purosangue che con l’immagine, scabra e toccante, di una quercia inarcata dal peso del cielo in una landa di rocce, esprime la derelizione della sua eroina? E, grande bellezza che Sorrentino può solo invidiare, come ignorare il satanico Willem Dafoe, a proposito di Pasolini prossimi venturi, in una di quelle parti esecrande che tanto bene gli riescono, pura esaltazione di fascino tenebroso, pochi minuti, ma che segnano?
Dove eravamo rimasti? A Joe, naturalmente, che, a letto con Jerôme, lamentava di non avvertire più piacere. Fine primo volume. Da lì riprende la narrazione. Nonostante il torpore dei sensi, Joe rimane incinta e dà alla luce un figlio. Recupero della sensibilità perduta? Francamente, non si capisce, ma gli appetiti non scemano e la ninfomane sfianca con le sue esigenze il compagno, spompato peggio di Mastroianni in Ieri, oggi e domani. Sarà lui a spingerla tra le braccia di altri uomini. E la caduta non tarda a sopraggiungere. Joe si assuefa al sesso violento, perde il figlioletto, tenta inutilmente una cura, si tormenta e si vitupera. Fino all’approdo alla malavita, affermazione estrema del disprezzo di sé. Riposa in lei l’elemento del crimine e si appalesa con cruenza. Seguono una curvatura saffica e il solito agguato del destino che la ricondurrà al cospetto di Jerôme. Sempre follemente innamorata. Fino allo sconquasso. Ed eccola sanguinante nel vicolo dove l’ha soccorsa Seligman.
In un paio di sequenze ci si diverte pure: l’adescamento in costume da insegnante di pianoforte è tra i momenti più saporosi, come ironica e frizzante è la messinscena del rendez-vous carnale con i due litiganti maschi africani, dove però nessuno, neanche la terza, gode. Purtroppo, man mano che l’epilogo si avvicina, la trama si ingarbuglia all’inverosimile e la volontà di Von Trier di offrire le più dettagliate spiegazioni del caso aggrava di didascalismi epidittici la sceneggiatura. La sofferenza di Joe deriverebbe dal concetto di colpa che una tradizione fondamentalmente misogina ha inculcato nelle donne, meno libere degli uomini di abitare la propria sessualità con disinvoltura. La ninfomania da una lacerante solitudine e dalla disperata ricerca dell’amore. Nulla di nuovo, in realtà. Perché allora spenderci sopra fior di elucubrazioni? Forse perché il regista anela a individuare un significato, una ragione a cui tutto assoggettare, come la matematica di Fibonacci o le partiture di Bach possono fungere da specchio della struttura del cosmo interiore ed esteriore. Ci riesce? Probabilmente sì. Ma non senza ma.
Guadagnatosi, nel complesso, la promozione, Von Trier non si indispettisca se qualcuno gli fa notare, magari in chiusura di recensione, che la disputa tra Joe e Seligman sul politically correct suona come un’autoassoluzione un po’ puerile. Secondo la donna, diversamente da chi parla bene e agisce male, c’è chi parla male e agisce bene. Per carità, nessuno lo nega. Ma chissà mai a chi stava pensando, Von Trier?