Su quali atrocità possano accadere, improvvisamente, d’estate, Tennessee Williams ci ha edotto a sazietà. E August: Osage County, per psicosi familiari e paesaggi fisici e interiori di lancinante desolazione, parrebbe proprio fuoriuscire dal suo calamaio, se non fosse una pièce di Tracy Letts del 2007, osannata dalla critica e premiata con il Pulitzer. Lo stesso Letts, autoadattandosi per lo schermo, firma l’aurea sceneggiatura dei Segreti di Osage County e informa a colpi di tastiera un domestic drama ligio alle regole del genere fino a rasentare la perfezione.
Si soffoca dal caldo, in Oklahoma, quando Beverly, poeta ed etilista o poeta-etilista (coincidenza e binomio obbligato), si uccide gettandosi nel fiume e lasciando sola l’infernale moglie Violet, farmacodipendente e affetta da un cancro alla bocca. In Violet lucidità e delirio ballano la danza macabra di una protervia maramalda, un micidiale impasto di recriminazioni, parolacce e accuse a chiunque le capiti a tiro, il portato di un’infanzia di stenti nella canicola del profondo Sud e di un curriculum matrimoniale per nulla idilliaco. Il ritorno a casa delle figlie Barbara, scrittrice mancata in crisi con il marito intellettuale e madre a sua volta, e Karen, dalla Florida con fidanzato yuppie decisamente losco, catalizzerà vecchie tensioni mai allentate. Senza contare che l’altra figlia Ivy, l’unica rimasta a vivere a Osage County, sta per spiazzare (?) la madre con una rivelazione inaspettata e l’irruzione della petulante zia Mattie Fae con il suo bastimento di intrighi inconfessati agiterà ulteriormente le acque.
La condotta registica di John Wells è discreta ai limiti dell’impersonalità, a fedele servizio di un copione che avanza implacabile senza concedersi un istante di tregua. E mentre il montaggio affilato di Stephen Mirrione esorcizza lo spauracchio del teatro filmato, I segreti di Osage County insegue l’insegna del grande cinema, quello che non teme il confronto con fonti e suggestioni letterarie delle più impegnative, a cominciare dalla tragedia greca: colpe dei padri (e delle madri soprattutto) che ricadono sui figli (e sulle figlie in particolare), maledizioni del gènos che si propagano con l’andar delle generazioni e nemesi della sorte che punisce, a tempo debito, i peccati commessi. Il cinema d’attori e di corpi e di menti sui quali infierire a suon di Stanislavskij: Meryl Streep giganteggia tra accessi di euforia e rovinose cadute, turgori e calvizie, monologhi e sticomitie spietate, ma se la cavano egregiamente anche gli altri, dalla vibrante Julia Roberts, come Streep candidata con merito al Golden Globe e all’Oscar, al tenero Benedict Cumberbatch con retrogusto di Peter Sellers, vessato da mamma Margo Martindale, esilarante ma con cisti di dolore annidate sottopelle. Sam Shepard, nelle due scene in cui compare, conferisce invece alla pellicola un tocco di wendersiana malinconia, da perdente con l’anima. E country di sottofondo.
Corografia di luoghi e spiriti, di pianure sconfinate come la solitudine di chi le popola, mélo e black comedy in sincrono, il film, forte del repertorio codificato di odio, rancore, sacrificio, adulterio, incesto, venalità, senso di colpa e sfuriate in quantità, ci travolge e ci sublima con un’altalena inesausta di furore e colpi di scena, un climax sempre ascendente di strazio anche quando sembra discendere. La catarsi non è mai definitiva, neanche dopo il litigio più acceso, e il peggio, dalle fauci di Violet, deve ancora uscire. Basterebbe la sequenza della cena: la formula chimica di August: Osage County è scritta lì. Formula di un cinema classico e topico, ma del quale il mondo ha ancora un disperato bisogno. Come di ogni emozione autentica.
Condivido e sottoscrivo con entusiasmo tutto ciò che hai scritto, Dario! Splendida recensione.