Il linguaggio pubblicitario vanta una lunga tradizione, e tra media e modalità espressive diverse è divenuto sempre più nel tempo lo strumento di maggiore efficacia nell’odierna società dello spettacolo, e quello di maggior presa sull’immaginario collettivo di tutto il mondo. Le strategie comunicative adottate nel corso della storia sono state numerose e, come per la moda e per le tante forme della cultura di massa, il linguaggio pubblicitario ha sempre dovuto aggiornarsi e rinnovarsi per non scadere nello svilimento del già-detto, che elimina qualsiasi potere di fascinazione e, perciò, qualsiasi capacità di promozione commerciale.
Il linguaggio pubblicitario ha come finalità sempre e comunque il convincimento di un pubblico al fine di vendere qualcosa, anche quando si tratta di un’idea politica; per perseguire questo fine, la pubblicità si sveste di qualsiasi criterio di ordine morale, subordinandolo alle regole dominatrici del mercato. Sappiamo bene, perché è stata una tesi ripetuta infinite volte, come la pubblicità, fondamento del mercato moderno, ha nel proprio concetto – e perciò stesso come sua condizione di esistenza – l’amoralità; il mercato conosce un unico principio etico regolatore, ovvero il guadagno. Così è stato per un lunghissimo periodo, anche e soprattutto nella sfera della cultura televisiva: gli spot pubblicitari, infatti, hanno per decenni adottato la loro fruttifera amoralità su numerosi piani. Innanzitutto, tipico dell’industria culturale, lo spot tentava di velare e occultare la dimensione più tetra e dolorosa dell’esistenza, per presentare allo spettatore un mondo fiabesco perseguibile grazie all’acquisto del determinato prodotto (diventare un adone grazie a un dentifricio che sbianca i denti per esempio, oppure un prodotto alimentare capace di rendere la colazione o la fine di una dura giornata di lavoro un momento magico).
Gli esempi si potrebbero sprecare, la regola sembra essere “la vita è un disastro, noi ti offriamo l’opportunità di trartene fuori come accade ai personaggi dei nostri spot”. La dimensione dell’esistenza “vera”, quella che eccede i limiti dello schermo, che potrebbe essere controproducente per un discorso promozionale e per molta cultura televisiva (telenovelas, telefilm, giochi a premi…) spesso rientra trasfigurata ironicamente: allora assistiamo a viaggiatori che rimpiangono la crociera appena trascorsa disperandosi sul posto di lavoro, oppure vediamo un uomo per la strada al quale accadono varie iatture e che, consumando il drink, torna ad acquisire una sua dignità, o anche momenti di noia e spossamento combattuti a suon di merci. Tutta questa dialettica promozionale tra vita vera e immaginario pubblicitario si è alimentata a tal punto da favorire le numerose teorie postmoderniste sul simulacro, sulla compenetrazione di immagine e realtà: l’immagine televisiva ha definitivamente superato la dicotomia, ovvero la convinzione di essere essa altro rispetto al reale. Il reale stesso, le nostre vite, e perciò stesso le nostre abitudini, le nostre modalità comportamentali e persino le strutture cognitive che regolano il nostro pensiero, sono tutti derivati della televisione, che chiudono asfitticamente il circolo.
Tale chiusura ermetica coinvolge dialetticamente la morale stessa; non a caso, nel mondo della pubblicità, l’amoralismo capitalista raggiunge un tale livello di perversione e di cinismo da rovesciarsi nel suo contrario, reintroducendo perciò la dimensione moralista non solo, come detto, attraverso l’ironia, ma diventando gli spot e gli slogan il surrogato di una tendenza di acceso moralismo. La pubblicità è intrisa di sentenze lapidarie, di promozione spudorata nei confronti di vecchi o nuovi valori (a seconda del target del prodotto), di menzognere dichiarazioni di interesse e empatia nei confronti del consumatore e via dicendo. L’amoralismo sfrutta il moralismo, perché la morale, svuotata di ogni intenzione di redenzione, è il migliore strumento psicologico di convincimento popolare e, perciò, di guadagno. Nel simulacro, di conseguenza, anche moralità e amoralità si scambiano perpetuamente le parti.
D’altronde, ci sono epoche nelle quali la vita vera, col suo carico catastrofico, non si riesce più a tenere a bada nel simulacro: rivendica la sua irriducibile priorità, infrange lo schermo televisivo riconducendoci alla nostra materialità, e perciò alle nostre miserie e ai nostri più elementari bisogni. All’immaginario ovattato del mondo sognante pubblicitario risponde la catastrofe storica, che ci riconduce alla nostra umanità ripulendoci dalla sovrastruttura esistenziale da “consumatori”. Si può essere consumatori solo quando si ha da consumare, si ha il tempo di sognare di meglio quando non si è costretti a rispondere alle incombenze basilari per la sopravvivenza di sé e dei propri cari. La catastrofe infrange il simulacro, e la catastrofe ha a che fare con l’attualità e la storia, da anni sempre cacciati fuori il linguaggio pubblicitario per rendere il messaggio più affascinante e potente.
L’eccezionalità del nostro presente non poteva però lasciare indenne la sfera del linguaggio promozionale, che – come abbiamo detto – gioca una funzione decisiva nella nostra società; se, dunque, la sottile strategia di comunicazione della pubblicità aveva contaminato da tempo la sfera della moralità pubblica e privata, in fondo la vita vera era rimasta ancora sempre fuori dai margini dello schermo. La crudeltà della realtà è sempre stata troppo eccessiva per venire anch’essa assorbita dialetticamente da uno spot; questo non era dovuto a un’incapacità dei creativi e degli studi di marketing: per sua stessa definizione, il messaggio pubblicitario doveva staccarsi dal lato più angosciante del reale, per non rischiare di scaricare il fascino fantasmagorico della merce piegando lo spettatore all’ansia nei confronti del presente.
Lo spot è sempre stato, in un modo o nell’altro, una fuga dal presente e dai suoi problemi.
L’elemento morale rappresentava un buon compromesso a dimostrazione che lo spot non fosse completamente scevro da collegamenti col mondo vero, ma spingersi oltre sembrava impossibile. La bravura e la capacità delle equipe di autori di spot, soprattutto quelli al servizio delle grandi multinazionali, si dimostra proprio qui, ovvero quando si riescono a infrangere i limiti dell’immaginario per inaugurare una nuova forma di promozione pubblicitaria, arrivandoci prima degli altri. A questo sono arrivati i pubblicitari della Coca Cola, che hanno tradotto nello spot una tendenza ideologico-sociologica ben radicata già in numerose altre forme della cultura contemporanea, ovvero quella del “ritorno del reale”. Il reale ha molto più fascino e attrazione morbosa del fantastico, perciò il reale vuole tornare, certo attraverso il filtro dello schermo, nel cinema (i falsi-documentari e lo stile di ripresa lo-fi), nella televisione (i reality show), nonché nella pubblicità. Non ci riferiamo qui alle – più o meno – false “candid camera”, che caratterizzano la pubblicità televisiva da decenni (pensiamo al fustino Dash), ci riferiamo piuttosto a quelle pubblicità che non tengono a freno l’irrompere del reale, e permettono al reale catastrofico di invadere lo spot, solo però se è disposto a piegarsi alle regole del mercato da esso rappresentato. Il reale ritorna come utile strumento di promozione commerciale, ed è per questo che l’innegabile catastrofe, talmente palese ed evidente da non poter venire negata se non in malafede da alcuno, deve dialetticamente ribaltare il suo cupo significato di disperazione in speranza per il futuro. Tant’è che, quanto più la catastrofe è chiara, tanto più è facilitata questa operazione concettuale-espressiva: d’altronde perché deprimersi, lo spot ci sta dicendo ciò che è sotto gli occhi di tutti! Il punto è riuscire a riscattare e veicolare il reale in una dimensione progressista, nella quale collocare il prodotto in questione che si fa a tal proposito istanza simbolica del riscatto, dell’utopia redentrice, della possibilità di sconfiggere la catastrofe.
La catastrofe in questione è la più acuta e grave crisi finanziaria globale del secondo dopoguerra, è il tasso di disoccupazione più alto da un secolo a questa parte, sono gli eventi sismici e le altre sciagure climatiche e ambientali che hanno angustiato il pianeta in maniera cadenzata negli ultimi anni, è il riemergere di razzismi pericolosi ecc. Lo spot in questione della Coca Cola, trasmesso da tutte le emittenti televisive, ci presenta una serie di buone ragioni per ritenere “bui” e terribili i nostri giorni, ma l’accompagnamento di chitarra acustica, il coro di bambini e il montaggio alternato (a mo’ di botta e risposta) di altrettante buone ragioni per continuare a sperare e reagire vogliono neutralizzare quella catastrofe facendoci tornare a sperare. La Coca Cola, a tal proposito, compare solo alla fine, facendosi baluardo di quella reazione: seppur la catastrofe incomba sui destini di milioni di persone in tutto il mondo, e lì dove il definitivo declino del capitalismo multinazionale e globale sembra ormai cosa certa, ci sono ancora buoni motivi per sorridere al mondo e trovare la forza di combattere. Senza ombra di dubbio messaggio progressista, moraleggiante di quel moralismo da noi descritto più sopra, se non fosse che l’icona della Coca Cola, sbandierata come opportunità di combattere la disperazione e sperare in un avvenire migliore, è una delle più potenti e celebri icone del medesimo capitalismo responsabile di quella catastrofe che ora intende frenare nel suo ipocrita spot: la matrice della catastrofe è forse proprio nel fatto che migliaia di persone nel mondo in questo momento stiano bevendo una Coca Cola.
Questo spot è di una genialità agghiacciante: in questa maniera, il responsabile della catastrofe riesce a redimersi lasciando intendere di non essere per nulla coinvolto nelle cause della tragedia storica. Il reale che irrompe nel pubblicitario viene così piegato alle esigenze di mercato, e il simulacro che sembrava essersi incrinato viene ricomposto solennemente, perché la catastrofe viene assorbita assieme alla sua complementare dimensione progressista e positiva, rappresentata dalla speranza e dall’utopia. Ma nel momento in cui speranza e utopia finiscono all’interno del meccanismo dialettico, allora esse non sono già più speranza e utopia, così come la catastrofe non è già più catastrofe. Quando la catastrofe storica diviene messaggio promozionale, allora l’utopia e la speranza, da forze propulsive, si riducono a strumento di mantenimento dell’immaginario vigente, già responsabile della medesima catastrofe.
Tutto torna altrove dal simulacro, mentre quest’ultimo ci illude di aver tutto al suo interno, come ci illude di aver al suo interno le stesse condizioni della possibilità del mutamento e della salvezza. Quando catastrofe e salvezza dalla catastrofe finiscono nello spot promozionale di un brand, allora evidentemente è già troppo tardi per salvarsi. Se lo slogan è “Ci sono tante ragioni per credere in un mondo migliore”, è assai probabile che non ce ne siano affatto.