Essere fan di Bruce Springsteen presenta inquietanti analogie con l’essere tifosi del Genoa. Si soffre, infatti, incassando reti su reti, aspettando una rimonta nella quale non si riesce neppure a sperare realmente, che non arriva mai. La sera del concerto di Springsteen a Roma ho perso per goleada: otto volte il pallone è passato dietro la mia linea di porta (Roulette, Lucky Town, Summertime Blues, Stand On It, Candy’s Room, Kitty’s Back, Incident On 57th Street), di cui una su rigore (New York City Serenade).
E pazienza se dopo ho battuto una punizione (Waitin’ on a sunny day), il dato di fatto è che ho perso con punteggio tennistico.
Ho perso – è di sconfitta che devo parlare, se do retta ai miei sentimenti – perché ho passato gli ultimi quattordici anni a inseguire Springsteen per mezza Europa, assistendo a più di trenta concerti, per ascoltare dal vivo il maggior numero di canzoni diverse, possibilmente belle, e Springsteen ha pensato bene di suonare la setlist del secolo quando non c’ero.
Già, perché come i più accorti avranno notato subito, questo articolo non fa parte della serie Have Boss, will travel, dedicata al mio tour personale, bensì al ciclo del divano. La sera dell’11 luglio 2013, infatti, seguivo il concerto tramite Twitter (ci sono dei pazzi che durante il concerto si prendono la briga di twittare i titoli delle canzoni che vengono man mano suonate, e ci sono i più pazzi, che li seguono), che in termini più pratici significa che tentavo il suicidio in media ogni dieci minuti.
Le mie grandi doti di veggente erano già state dimostrate qualche giorno prima, in occasione del concerto a Mönchengladbach, ridente cittadina della Vestfalia vicino al confine con l’Olanda, con pochi abitanti in più di Trieste, esilaranti vicissitudini toponomastiche, nota prevalentemente per la sua squadra di calcio.
In passato, infatti, avevo affermato con convinzione che tutti si sentono il Popolo Eletto di Springsteen, poiché, tutto sommato, a ciascuno Bruce dà buone ragioni per crederlo… a ciascuno, tranne che ai tedeschi. Storicamente, infatti, non si registrano scalette rilevanti entro i confini della Germania. Non occorre specificare che ogni concerto di Springsteen è uno spettacolo bellissimo, cui vale sempre la pena assistere, ma è innegabile che non ci siano scalette di concerti tedeschi entrate nella Storia; fino a Mönchengladbach, appunto.
Là, lo scorso 5 luglio, Bruce e la E-Street mi hanno fatto fare la figura della cretina suonando una scaletta quasi completamente rivoluzionata, che comprendeva brani come Better Days (“ah, però…”), Mary’s Place (“mmm, se non altro è diventata rara…”), Point Blank (“nuoooooh”), Trapped (“aaargh!”), Man’s job (“Seee, e poi?”), Leap of Faith (“ma belin!”), per non far menzione della cover Shake rattle ‘n’ roll e dell’outtake One way street.
L’avevo presa piuttosto male, sia perché avrei voluto sentire dal vivo molte di queste canzoni, sia perché avevo clamorosamente sbagliato il pronostico. Sebbene sia felicissima di essere stata a Parigi e mi piaccia molto l’idea di avere ascoltato i tre più popolari album dal vivo per intero, una scaletta piena di sorprese, come questa, sarebbe stata una bella tacca sul mio fucile.
Springsteen infierisce poco dopo a Lipsia, domenica 7 luglio.
Il triestino medio, la domenica d’estate, si alza all’alba perché deve andare al bagno. Ciò non significa che dopo il 21 giugno veniamo tutti colti da cacarella mattutina, bensì che ci si alza di buon’ora per rispettare l’imperativo categorico di recarsi al mare (nota del forestiero: i triestini, che sono italiani da poco, hanno ancora scarsa dimestichezza con alcune locuzioni e usano al singolare l’obsoleta espressione “i bagni” con cui, in passato, ci si riferiva agli stabilimenti balneari). Quando esco in mutande sul poggiolo per capire se tanto buio sia dovuto ad un’invasione di astronavi aliene che oscurano il sole, e constato che è solamente il maltempo tipico del giorno che abbiamo deciso di trascorrere al mare, mi giro verso mio marito e gli chiedo se abbia appuntamenti di lavoro improrogabili per l’indomani. Non capisce il perché di questa domanda alle sette del mattino, e mi spiego: “Quante ore sono per Lipsia? Sette? Otto? Secondo me i biglietti si trovano, se partiamo ora ce la facciamo, ma dobbiamo prendere almeno mezza giornata di permesso, domani”.
Per tutto il pomeriggio brontolo sotto un ombrellone di Portorose perché “sono le quattro e non ci hanno ancora dato i braccialetti”, e la sera apprendo che Bruce ha punito la mia mancanza di fede e sacrificio con una scaletta che comprende Roulette, Lucky Town, Sherry Darling (non una vetta, convengo, ma è stata la prima canzone che ho imparato, nel 1985 o giù di là: se nella mia infanzia mi sono divertita una volta, è stata quando mia cugina me l’ha insegnata), You never can tell (quella della pubblicità dei Pavesini, sì…), Back in your arms, Open all night, Cadillac ranch (l’altra canzone che mia cugina mi insegnò prima che andassi alle elementari) e Rockin’ all over the World.
Se ti pizzica una zanzara è seccante, ma se subito dopo ti cade un martello su un alluce, ecco che della puntura di zanzara non ti accorgi più.
Se fossi stata un poco più accorta, avrei tolto il piede dalla traiettoria del martello correndo a procurarmi biglietti per Roma, anziché cincischiare grattandomi Lipsia.
Invece, non ho compreso i segnali che pure arrivavano forti e chiari, e mi sono ostinata a credere che non stesse accadendo nulla di anomalo; del resto, la moglie cornuta è l’ultima a saperlo, anche quando si affanna a pulire le tracce di un rossetto che non porta dai colletti del marito, e io non faccio eccezione. Nonostante stesse diventando abbastanza chiaro che Bruce stesse rivoluzionando le scalette in previsione del concerto Roma, ho continuato a non capire. Per giunta, Lungimiranza Pravato – questo il mio nuovo nome, dall’11 luglio – è rimasta convinta che la scaletta di Roma sarebbe stata estremamente standardizzata, come puntualmente accade ai festival, e lo ha affermato senza tema di smentita ad ogni piè sospinto, per riparare dalla delusione gli amici che, invece, ci sarebbero andati.
Amici che ora non sono più tali perché ho tolto loro il saluto.
E ho defollowato tutti quelli che seguivo su Twitter e che mi hanno fatto lo sgarro di essere presenti, mentre io, tramite il social, subivo reti su reti accasciata sul divano, esausta dal dolore, comprendendo con chiarezza cosa provò Jennifer Aniston quando scoprì dai tabloid che suo marito se la faceva con Angelina Jolie.
E ho cancellato le canzoni di Springsteen dal lettore mp3.
E non ne voglio più sapere niente di lui, perché gli ho dato gli anni migliori della mia vita e questo è il ringraziamento.
E adesso esco e vado a comprarmi una maglietta degli One Direction.
Per caso, tra i nostri lettori c’è qualcuno che ha due biglietti per Leeds?
No?
Non è che potreste chiedere in giro, per favore?