L’inizio di questo 2013 non fa che confermare l’interesse francese verso l’arte cinese, soprattutto se dissidente: dopo l’esposizione di Ai Weiwei al Jeu de Paume, e la serata che il Palais de Tokyo ha dedicato a Liau Yiwu il 17 gennaio scorso, la Fondation Cartier accoglie, fino al 17 marzo, la prima esposizione in Europa consacrata a Yue Minjun. Si tratta di uno degli artisti cinesi destinati ad integrare e arricchire le collezioni più esclusive, e la quarantina di quadri raccolti, così come il centinaio di disegni mai mostrati al pubblico fino ad ora, ne sono una conferma.

UntitledI quadri di Yue Minjun sono popolati di uomini che ridono. Sono popolati da un unico volto, quello dell’artista, che rigenera la propria risata all’infinito, su innumerevoli volti, tutti identici.

Ma di cosa ridono gli Yue Minjun dagli occhi socchiusi, la pelle rosseggiante come carne viva e un numero incalcolabile di denti? Della Storia con la S maiuscola, della realtà sociale cinese, o di noi, accerchiati da un beffardo sorriso? François Julien sostiene che “questo riso stereotipato diventa schermo contro ogni possibile ricerca di intenzionalità, innalza un muro, impedisce qualsiasi profondità interna, blocca la sensibilità.”

Ma più che un muro, l’atto del riso che nella sua stessa moltiplicazione diviene maschera neutra, atona e inespressiva, sembra piuttosto erigere un avvilente distacco: l’ineffabile fenditura che si insinua tra il reale ed il nostro giudizio. Le azioni rappresentate perdono ogni forma narrativa, poiché la ripetizione sistemica della risata annulla la potenza della storia, del ritmo, della situazione. Assistere alla reiterazione del viso dell’artista significa inoltre assistere all’annullamento del soggetto in quanto individuo. Yue Minjun è presente più volte nello stesso quadro, sotto diverse forme: i punti di vista si sdoppiano, si ammassano, mentre la storia procede a passi decisi verso un unico punto di smarrimento, in cui si fondono uomini e dinosauri, opere classiche e riadattamenti contemporanei. Se i cardini della costruzione rappresentazionale (narrazione, soggetto, spazio, tempo) vengono quindi demoliti, resta un’unica grossa risata da celebrare: “il fatto di sorridere, di ridere per nascondere la propria impotenza, ha una grande importanza per la mia generazione”. Spiega Yue Minjun nella sua biografia («Yue Minjun Biographie», Paris: Hanart TZ Gallery/Galerie 75 Faubourg, 2006).

The execution

In un bellissimo saggio sulla significazione della comicità, Henry Bergson sosteneva che il riso corrisponde ad una meccanicità placcata sulla vita. Per il filosofo francese, il riso è infatti una forma di riconoscimento e punizione nei confronti della goffaggine e dell’inettitudine di chi, non sapendo adeguarsi alle imprevedibili vicissitudini della vita, prosegue interpretando in modo macchinico le situazioni che si trova a fronteggiare. L’obiettivo è quello di correggere ed istruire tali rigidità. Da un saggio di Raffalele Ariano su Bergson: “Il distratto che inciampa, il maldestro che fa cadere senza posa oggetti interno a sé; il fissato e l’idealista, che, inseguendo un’idea che li ossessiona, fraintendono con scientifica sistematicità il mondo che li circonda…questa goffaggine nei comportamenti, questa rigidità, questo automatismo nel vivere e nel rapportarsi ai propri simili sono il comico. ”

The sun

Nelle rappresentazioni di Yue Minjun questo rapporto viene invertito ed il macchinico non si riduce più ad una deviazione dal vitale, al contrario: l’apparato vitale completamente dileguato, il macchinico non può rinviare a nulla se non a se stesso divenendo quindi imperante, poiché ha preso possesso di qualsiasi forma di significazione. Se questa apocalittica disfunzione, dove il riso irride se stesso e non vi è più alcuna differenza tra ciò che è giusto e ciò che è aberrante, tra vittima e carnefice, implica l’annullamento di ogni forma di pensiero dogmatico e unidirezionale, è in primis la possibilità di una qualsiasi forma di individualità a restare tenacemente, categoricamente preclusa.