In un mondo in rapida e costante evoluzione, dove chi si ferma è perduto come diceva Totò, trovare un’oasi di pace che ci permetta di riflettere sulle nostre esistenze, e sul nostro passato, non è cosa di tutti i giorni.
La 24a edizione del Trieste Film Festival, svoltasi dal 17 al 23 gennaio, è stata proprio questo: un’oasi, un luogo in cui mettere da parte la frenesia quotidiana per fare spazio a volti, personaggi e storie di celluloide che, in fondo, sono uguali a noi pur non essendo noi.
Le molteplici sezioni del Festival, e le innumerevoli vicende narrate, hanno permesso ad un pubblico eterogeneo di conoscere più da vicino pellicole, attori e registi spesso trascurati dal panorama nazionale, dimostrando ancora una volta che il grande cinema nasce soprattutto dalla passione e dal desiderio di raccontare una storia, più che da uno scopo prettamente commerciale.
Volendo trovare un filo conduttore, si potrebbe sostenere che il messaggio di fondo è legato alla volontà di attribuire un senso alle angosce e alle sofferenze che colpiscono le nostre vite, individuando quei valori che ormai sembrano perduti da tempo.
Il percorso del Festival si snoda, quindi, idealmente dal Dokumentălists dei lettoni Ivars Zviedris e Inese Kļava, al Final Cut dell’ungherese György Pálfi. Nel primo, una donna solitaria che risiede ai margini di una palude viene “importunata” da un documentarista che la vorrebbe trasformare nella protagonista di un suo film: il rapporto che si svilupperà tra i due finirà per insegnare qualcosa ad entrambi, permettendo alla donna di uscire pian piano dal proprio isolamento, e all’uomo di scoprire il vero rapporto che si crea tra regista e personaggi. Nel secondo, György Pálfi si diverte a creare la storia d’amore perfetta, con un lavoro di montaggio durato per ben quattro anni, attraverso 451 scene, tratte dalle più celebri pellicole, atte ad esprimere la sua grande passione per il cinema. Tra i due immaginari confini, si colloca la carenza affettiva e la mancanza di dialogo dei protagonisti di What is love, dell’austriaca Ruth Mader, il cui obiettivo, perfettamente riuscito, era tracciare un ritratto della vita di oggi in un paese dell’Europa Occidentale; il disagio adolescenziale del serbo Klip di Maja Miloš, dove la perdita dei punti di riferimento induce la giovane Jasna a condurre una vita segnata da sesso e droga, con il telefonino utilizzato come mezzo per riprendere le proprie vicissitudini; i disperati tentativi di un padre di salvare il figlio dalla tossicodipendenza del Rocker di Marian Crişan; la povertà e il desiderio di riscatto dello Student di Darežan Omirbaev, che ricorda da vicino il Raskolnikov di Delitto e Castigo di Dostoevskij; lo spettro della disoccupazione e la voglia di lottare per la sopravvivenza di Despre Oameni Şi Melci, del rumeno Tudor Giurgiu, in cui un gruppo di operai, a rischio licenziamento, si reca a Bucarest per vendere il proprio sperma a una banca del seme.
Come detto, il Festival voleva essere anche un tuffo nel passato, attraverso la proiezione di pellicole che hanno fatto la storia del cinema, e poiché nel 2012 si sono celebrati i cinquant’anni dell’uscita de Il sorpasso di Dino Risi, quale occasione migliore per tornare a parlare degli anni del boom e della commedia all’italiana? Quella commedia che, nemmeno a farlo apposta, si proponeva, come afferma Aldo Viganò nell’introduzione alla ristampa del volume Il sorpasso 1962-2012, i filobus sono pieni di gente onesta: “di raccontare gli esseri umani, le loro relazioni con l’ambiente, con gli altri e con se stessi, in base al loro agire sullo schermo, autenticamente”. Autenticità che anche il cinema di oggi sembra sempre di più voler ricercare.
Notevole interesse e divertimento hanno suscitato, infine, le quattro pellicole della nuova sezione Muri del suono: Balkan Melodie di Stefan Schwietert, Kaip Mes Žaiděme Revoliucija di Gierdre Žickite, Zvonky Šťastia di Jana Bučka e Marek Šulík, e Noseland di Aleksej Igudesman. Quest’ultimo film, in particolare, ha confermato ancora una volta il talento del violinista Aleksej Igudesman, noto in tutto il mondo per i suoi buffi duetti con il pianista Richard Hyung-ki Joo e per la sua abilità nel trasformare la musica classica in gioia allo stato puro.
Al Festival di quest’anno va il pregio di essere riuscito a coinvolgere maggiormente il pubblico, proponendo pellicole originali ed inusuali che trattassero anche tematiche tralasciate dalle altre rassegne ospitate sul territorio italiano. La nuova sede della Sala Tripcovich, che si è aggiunta a quella abituale del Teatro Miela, ha inoltre permesso un maggiore afflusso di pubblico, facilitando anche la frequentazione del Festival da parte dei non residenti. Non si può che auspicare che la manifestazione continui a svilupparsi in questa direzione.