Tu sei uno di quelli che parte da solo. Le sere invernali, molte sere invernali, mentre fuori cade quella lieve pioggia che idrata la pelle e non bagna, quella che i baschi chiamano txirimiri e i galiziani orballo, tu sei alla scrivania. Hai una lampada alla tua sinistra, di fronte lo schermo azzurro del pc in modalità salva-energia, il buio alle spalle. E alle spalle tre o quattro sagome trasparenti di persone che già non sussistono più nel corpo, ma che vengono a farti visita in camera, generalmente in quell’ora notturna in cui ti svegli di soprassalto e non ricordi più dove sei. Sono esseri evanescenti, che si spostano di stanza in stanza seguendo le tue orme. Non disturbano, non sono invasivi. Un tempo li hai amati, ancora li ami come un tempo.

Luigi Nacci in cammino

Sei solo, di una solitudine che non sai più maneggiare. Anni fa potevi riempire le sere con i libri, le lettere, le coppe di cognac, Rachmaninov, una telefonata prima di mezzanotte, qualche pagina di romanzo abbozzato e lasciato a farsi coprire dalla polvere. Anche con la polvere sapevi parlare, ad ogni cosa sapevi assegnare uno spazio e un progetto, l’idea della fine di tutto non era che un’idea tra le idee, sabbia tra la sabbia. Eri solo e della solitudine godevi. Quando viaggiavi per il mondo, il tuo zaino era più di un compagno, ai tuoi scarponi potevi confessare i tuoi desideri più oscuri, non avevi bisogno di niente al di fuori della tua voce.

Ora sei solo, ma la solitudine ti sovrasta. Affondi nei giorni, lentamente, se osservi bene puoi scorgere le tue caviglie rapprese nella moquette. Domani saranno le ginocchia. Prima che cambi luna, scomparirai. Hai paura, come mai prima. Ti chiedi come fare a salvarti. Ti chiedi come è potuto accadere, che tutto sia rapidamente precipitato così, che gli anni siano trascorsi con così poco amore, così pochi abbracci, così pochi istanti memorabili. C’era lei, c’era lui, c’erano loro, quelle sagome che non riesci a toccare, sai che sono lì ma non le puoi trattenere, e non sai se, scomparendo nel pavimento, andrai da loro. Non credi in niente al di là del tuo corpo, per te l’aria è aria, il cielo è cielo, il fuoco è fuoco, la materia è irriducibilmente materia. Hai provato ad andare oltre la materia, a credere in qualcosa che stia al di là, ma non ce l’hai fatta. Quelli che credono ad altro, a qualcos’altro che sta al di là, credi siano meno soli di te. Poco importa, ci sei tu, qui e ora, e tra poco scomparirai.

Luigi Nacci in cammino

A meno che tu non vada in soffitta. Lì lo zaino, lì gli scarponi, lì il bastone che ti ha dato tuo padre, quello avuto in dono da un pastore, lì la mantella, la borraccia e tutto ciò che hai usato in passato, quando ti alzavi all’alba la domenica, senza sapere se fosse neve o pioggia, o nebbia, o vento da perdere la testa, e partivi per andare alla conquista del bosco dietro casa, o della vetta a cinque ore di automobile, della collina in cui eri stato ragazzo. Avevi la schiena diritta e i muscoli in tensione, i pori della pelle spalancati. Potente era l’ansia di non fermarsi, di proseguire verso un ignoto che avresti potuto addomesticare, o che avrebbe potuto addomesticarti. Ti ricordi il petto gonfio sull’uscio, la gioia nell’allontanarsi da casa, la stanchezza buona al ritorno? Ti ricordi che tutto pareva assumere una forma comprensibile, che un senso, sotto la doccia, prima di dormire, pareva comparire, così, dal nulla?

Vai in soffitta. Lì lo zaino, lì gli scarponi, lì l’ansia di partire, lì il petto gonfio, lì la stanchezza, lì cose buone. Prendi poco, non avvertire chi ti conosce, esci dal tuo appartamento. Suona alla signora che vive di fronte. Dille di vestirsi. È sola, avrà paura al principio, se sorridi, se non spieghi troppo, ti seguirà. Vai al piano di sotto, suona un’altra volta. Il ragazzo che non sai come si chiama, che non sai se è vivo, se anche lui è una sagoma, o se è della tua stessa carne, digli di vestirsi, sorridete tu e la signora, spiegate poco, vi seguirà. Fate lo stesso cinque, sei, sette volte, suonate, sorridete, spiegate poco, sorridete, siate cauti nei gesti, siate il più possibile sobri, accoglienti. Quando il gruppo è fatto, uscite dal palazzo. Guida il gruppo per i primi chilometri. Ricorda, solo per i primi chilometri. Scambiate qualche parola, non chiedetevi l’un l’altra che lavoro fate, o dove siete diretti. Chiedetevi come state, datevi qualche pacca sulla spalla, osservate assieme le scie degli aerei all’orizzonte, siate concentrati e soprappensiero, siate amichevoli ma senza forzare.

Camminate lentamente. Di’ che avete solo una regola: camminiamo col passo del più lento. Pochi ti ascolteranno, ciascuno camminerà al suo ritmo. Presto ti verranno alla mente i tuoi cammini solitari. Quant’erano belli. Quanta libertà c’era nell’inventare la rotta senza dover dare ragione al timoniere. Ma poi ricorderai anche le sere da solo, al bar di un villaggio senza nome, senza poter parlare con nessuno. Le notti nel sacco a pelo a leggere un libro senza virtù, la frutta secca mangiata d’innanzi al caminetto spento, i tramonti spettacolari senza stringere una mano. Penserai che è stato bello camminare da solo, ma anche duro. E poi penserai al tuo gruppo. Alle seccature, ai conversatori incalliti, ai disturbatori del sonno, agli stoici seguaci della salute, ai fanatici della salvezza, ai nichilisti dal passo incerto, ai ciarlatani delle salite.

In gruppo sul cammino di Santiago

I primi tre giorni saranno fatica, lamenti, improperi, aspro uno contro uno. Poi dal quarto qualcosa accadrà, un miracolo che partirà dai piedi. I più rapidi rallenteranno, i più lenti acquisteranno vigore. Come una nave che da sola va, come un’onda che si abbatte sulla costa e non può essere fermata. I piedi prenderanno a battere all’unisono, all’unisono i pensieri, i respiri. Le domande si faranno via via più rade, via via meno importanti saranno il caldo e il freddo, indifferente la meta, lievi i dolori, leggere le gambe, luccicanti gli sguardi. Le tue caviglie, che erano rapprese nella materia vischiosa del pavimento, torneranno a tagliare l’aria con brio. Le tue ginocchia saranno sublimi. Sarai un corpo lieto diretto verso un punto ignoto, eppure denso, preciso, ospitale. Non ci sarà più guida, non ci sarà più volontà al di sopra delle altre. Non sarai più tu, ma tu dentro a molti tu, e allo stesso tempo tu dentro a un tu più grande, un tu tiepido come un’estate mite che arriva con il solstizio, né un giorno prima, né dopo. Non avrai più timore di scomparire. Alle tue spalle non ci saranno sagome. Della tua solitudine farai pane. Il pane lo dividerai.