Cerco di fare immagini che siano universalmente leggibili e di immediata comprensione. Quanti cerchino una risposta semplice alle domande che esse pongono rimarranno probabilmente sconcertati. Un artista è il portavoce di una società in un determinato punto della storia. Il suo linguaggio è determinato dalla sua percezione del mondo in cui vive. Egli si rende tramite tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Se un artista è davvero onesto con se stesso e la sua cultura, lascia che la cultura parli attraverso di lui imponendo il meno possibile il proprio ego. Dove non c’è mistero, c’è solo propaganda.
Keith Haring, Diari, 1984.

Keith HaringKeith Haring è stato per l’arte ciò che Ferdinand de Saussure fu per la linguistica: un innovatore. Se a inizio carriera le sue immagini sono posizionate in una cornice ben definita, che richiama la struttura del fumetto, da lui tanto amato, in cui ogni scena è separata dall’altra, in seguito, i suoi disegni assumono piuttosto la forma di ideogrammi che ricordano le culture tribali e, lentamente, cominciano ad invadere tutto lo spazio disponibile sulla tela. Spazio di cui Haring possedeva una padronanza fuori dall’ordinario. Basti pensare che era in grado di dipingere murales di oltre cento metri di lunghezza, senza bisogno di bozzetti o disegni preliminari, ma utilizzando come unico riferimento uno schema mentale che prevedeva che iniziasse a realizzare la sua opera a partire dall’angolo superiore sinistro per poi terminare nell’angolo inferiore destro. A questo proposito, nel 1987, a Parigi, in occasione del decimo anniversario del Centre Georges Pompidou, dipinse un magnifico quadro in situ, lavorando a suon di musica per un’intera giornata, venendo continuamente interrotto dagli altri dipendenti del Centre infastiditi dal volume dello stereo che lui si rifiutò di spegnere.

Dopo le numerose mostre tenutesi in Italia negli anni Ottanta, alcune delle quali in presenza dell’artista, e quelle più commemorative degli anni Novanta-Duemila, nei mesi scorsi è arrivata a Udine Keith Haring Extralarge, The Ten Commandments, The Marriage of Heaven and Hell, a cura di Gianni Mercurio, già curatore in passato dell’esposizione al Chiostro del Bramante di Roma, e promossa dall’associazione culturale Bianco&Nero, in collaborazione con Regione Friuli Venezia Giulia, Comune di Udine, MADEINART, The Keith Haring Foundation, e numerosi altri sponsor pubblici e privati.

Haring a Udine

La nuova esposizione presenta un Haring inedito per l’Italia, maggiormente focalizzato sulle problematiche sociali e sul desiderio di trasmettere un messaggio al visitatore, che non deve lasciarsi spaventare dall’interpretazione personale e originale dei mali che attanagliano l’uomo.

I dipinti della serie The Ten Commandments oltre a distinguersi per la dimensione notevole delle tele (769,6 x 502,9 cm), strutturate ad arco come le icone sacre, costituiscono una sorta di rivisitazione delle regole bibliche. Per l’artista, infatti, esse non sono un elemento da recepire in senso letterale ma si fanno metafora di qualcosa di più profondo, da qui la scelta di Haring di avvalersi dell’antitesi: se un comandamento dice “non rubare”, egli rappresenta un uomo che ruba, e allo stesso tempo lascia che il visitatore sia indotto a interrogarsi su quanto sta osservando, per cui, non conoscendone il titolo, difficilmente sarebbe attribuibile a un comandamento. L’elemento di connessione tra i dieci pannelli è rappresentato dal colore rosso, che nell’immaginario di Haring indica il potere, il fuoco, l’inferno ed è simbolo del male. Prima di dipingerli, l’artista consultò attentamente la Bibbia per farsi un’idea più chiara di ciò che voleva riportare sulla tela.

The Ten Commandments

The Marriage of Heaven and Hell, in compenso, è l’opera più maestosa mai realizzata da Haring (è alta oltre sette metri). Nata su richiesta del coreografo Roland Petit in occasione del balletto Le mariage du ciel et de l’enfer, basato sull’omonimo testo del pittore, poeta e illustratore inglese William Blake, venne inizialmente utilizzata come sfondo teatrale e quindi non collocata all’interno di alcun museo.

Osservando l’opera, lo sguardo è inevitabilmente attratto dalla zona centrale dove una mano proveniente dal cielo è impegnata a infilare una fede al dito di un’altra mano risalente dagli inferi. Quest’ultima tiene l’indice e il mignolo alzati, e si converte quindi nell’elemento dominante del quadro. In un certo senso, è come se la mano “angelica” sancisse l’unione tra il bene e il male approvando i gesti della mano “infernale”. Le anime dannate, nella parte inferiore del quadro, sono tutte segnate con una croce all’altezza della testa, simbolo di individualità, e sono sorvolate da altri demoni che recano una croce sul petto, a indicare una connotazione più negativa; sopra di loro si ergono le anime angeliche, alcune a cavallo di una croce, altre che sembrano esprimere uno stato di confusione. La simbologia di Haring apre sempre il cuore di chi la osserva, e pur nel suo essere enigmatica sa trasmettere forti emozioni.

The Marriage of Heaven and Hell

Nella chiesa sconsacrata di San Francesco, le undici opere sembrano sospese nell’aria, quasi a voler comunicare un universale messaggio di rispetto e accettazione che purtroppo, nel mondo in cui viviamo, si sta facendo sempre più flebile.