Lo spazio scenico ha sempre ricoperto un ruolo decisivo nel cinema di Bernardo Bertolucci e, in particolare, la dialettica sofferta e conflittuale tra interni, ideali spelonche di personaggi in fuga dalla vita e alla ricerca d’isolamento e rifugio, ed esterni, esclusi, temuti, aborriti. Tra i libri del suo bugigattolo romano, Pierre Clémenti, in una sorta di reinventato Auto da fè canettiano, finiva per seppellire se stesso e la sua schizofrenia popolata di doppi. Rintanati in un appartamento deserto, Marlon Brando e Maria Schneider s’immergevano, in Ultimo tango a Parigi, in una forsennata e fantasmatica abluzione sessuale, vietata ai minori e al mondo di là fuori. In The dreamers, mentre infuriava il Maggio sessantottino, tre giovani cinefili con le facce di Louis Garrel, Eva Green e Michael Pitt si arroccavano in casa per sprofondare in discussioni sull’arte e l’amore. Quasi una poetica dell’agorafobia che si traduce, però, in un’estetica claustrofobica. Outsider che patiscono l’assedio di mura tra le quali hanno scelto di internarsi. A chi tampinasse similitudini autoriali, potrebbe venire in mente, come termine di confronto, Roman Polanski, altro lugubre cantore della reclusione.
Io e te, capolavoro letterario di Niccolò Ammaniti, nasce involontariamente sotto il segno delle ossessioni bertolucciane; e il regista parmense, dal canto suo, non si è lasciato sfuggire la storia del quattordicenne Lorenzo e dell’agognato eremitismo negli scantinati condominiali.
Come Liv Tyler nel film del 1996, anche Lorenzo vorrebbe ballare da solo, prendere le distanze dal parapiglia sociale e conquistare (anche se per sottrazione) i suoi spazi, ma, anche nel suo caso, la realtà esterna irromperà a guastare i piani. Quando, fingendo di partire per la settimana bianca, il ragazzino si inabissa nella cantina di casa, il proposito di vivere nascosto e coltivare la sua idea di quiete tra il formicaio scrupolosamente curato e provviste alimentari debitamente razionate verrà stravolto dalla sorellastra Olivia. Un’emarginata come lui, rosa dalla solitudine e dalla droga. Sarà proprio questo incontro-scontro a imprimere una svolta, e, per giunta, molto significativa. Perché l’urgenza di soccorrere la sorella guiderà Lorenzo fuori dalla tana e dagli spettri infestanti la sua problematica fanciullezza, per spingerlo verso l’età adulta, il tempo della responsabilità.
La standing ovation con la quale Cannes ha salutato Io e te è l’unica reazione possibile a un film di così triste e lancinante bellezza, un bagno nelle emozioni più viscerali. Regista e romanziere, in compagnia di Umberto Contarello e Francesca Marciano, hanno lasciato evaporare il succo del testo originario, per assorbirlo in una sceneggiatura libera e inventiva, ma, al tempo stesso, fedele al senso del libro. La rinuncia alla tragica amarezza dell’epilogo voluto da Ammaniti per il romanzo e la scelta di concludere con una nota speranzosa non si traducono in un inno alla gioia e all’ottimismo, perché sappiamo che Olivia, intabarrata nel suo cappotto eccentrico e nelle sue inesauste menzogne, si incammina verso un futuro tutt’altro che idilliaco. Ma, al di là di questo, la pellicola, del genitore cartaceo, sa rendere con squisita sensibilità il coinvolgimento nel percorso di crescita, perché di ciò si tratta, di un Lorenzo che, senza prevederlo, si ritrova, per la prima volta, responsabile di una vita e, per giunta, di una persona molto più alienata di lui. In una scena, Lorenzo libera le formiche dalla scatola in cui le allevava: forse quelle formiche lo rappresentano e anche lui, ora, sa di poter spiccare il volo della libertà.
La sintonia con l’universo di Ammaniti non impedisce, tuttavia, a Bertolucci di girare un film profondamente suo, una summa della sua cospicua e fortunata opera. Se, da un lato, mancano all’appello i vezzi cinefiliaci del passato, le citazioni e gli omaggi, la dedica al fratello Giuseppe, scomparso quest’anno, e l’ostinata coerenza a sé, con Veronica Lazar a fare da filo rosso, testimoniano da sole un’esistenza spesa e profusa nel cinema, in un certo cinema. Io e te è un film di Bertolucci per tanti motivi. Per lo sguardo che cinge, ad esempio, i giovani e le loro inquietudini, imboscate tra i rovi dell’anima e serpeggianti negli spasmi di corpi che mescolano dolore e sensualità. Sulle note di Ragazzo solo, ragazza sola di David Bowie (e Mogol), Lorenzo e Olivia si avviluppano, in uno dei momenti più intensi, in una danza che grida il loro disperato bisogno d’affetto e narra la struggente scoperta dell’altro attraverso un erotismo sottopelle. E, complice una non certo inedita assenza del padre, spesso evocato ma mai mostrato, vittima inconscia di una qualche strategia del ragno, Bertolucci riesce anche a insinuare il tema dell’incesto, suo vecchio pallino, fin dalla conversazione iniziale tra il protagonista e la madre.
Del 3D inizialmente previsto, il film, a conti fatti, non aveva bisogno. Il direttore della fotografia Fabio Cianchetti adombra e illumina magistralmente, al ritmo delle fluttuazioni d’umore dei due fratelli, gli spazi angusti del seminterrato tutto cimeli e ciarpame, regalandoci un flusso di sensazioni che non necessita d’altro.
Anche perché al resto provvedono due (quasi) esordienti d’impressionante bravura come Jacopo Olmo Antinori, il migliore, e Tea Falco. Perfetto, lui, nel somatizzare la rabbia di Lorenzo ma anche nello svelarne, attraverso le rare distensioni del volto, l’anodina intelligenza e l’occulta dolcezza. Generosa, lei, che al personaggio mescola un po’ della sua biografia (le foto artistiche), nel sopportare il degrado, l’abbruttimento e l’effimera rinascita di Olivia. Ragazzo solo, ragazza sola. O forse no, perché, alla fine, li avvertiamo così vicini da amarli.