Tame ImpalaIl pop non guasta e lo zucchero illumina l’anoressia dello spirito.

In Australia la gente vive l’iper-modernità del giovane continente con giusta disinvoltura, senza abbarbicarsi all’unica dimensione spazio-temporale di un futuro forzatamente all’avanguardia. Il passato è la narcosi di un miraggio allucinogeno, e il presente è uno shaker di azioni e reazioni inedite. Non importa esser nati nella precisa allocazione di un millenovecento e qualcos’altro. Ciò che conta è l’uso empatico di tutti e cinque circa i sensi, affinché la realtà depositi il suo ridondante materiale nel velluto senza spigoli delle umane percezioni. Con gli occhiali di una mistica ingessata, tipicamente alla ricerca di una citazione, i Tame Impala sarebbero l’ennesima creatura incapricciata di obsoleta psichedelia. Con l’imberbe, tenero, ingenuo entusiasmo di pur promettenti neofiti, i Tame Impala si candiderebbero ad essere il super-gruppo del momento. Con l’equilibrio del buon gusto sonoro, i Tame Impala soddisfano la mai sopita istanza di un trip fluorescente in una stazione metropolitana.

Tame Impala

Originaria di Perth, la band ruota intorno alla figura di Kevin Parker, voce e chitarra del caleidoscopico sound&vision. Evidentemente invischiato in una storia d’amore e d’allucinazione, Kevin mette su il progetto Tame Impala dopo aver rodato l’intuizione lungo le coordinate di un ep omonimo, uscito nel 2008, precedente all’esplosione intercontinentale con Innerspeaker, primo album in studio nel 2010. L’esordio viene salutato come uno dei migliori prodotti della neo-psichedelia. Acido, edulcorato, trasognato, evocativo quel tanto che basta per tirare in ballo, da più parti, Pink Floyd ed altre entità di quell’universo magneticamente labirintico. Se Innerspeaker celebra la convergenza di molteplici istanze, in cui è facile imbattersi in riusciti salti ad ostacoli, che zigzagano tra tribalismi kraut rock e gommosi virtuosismi bubble pop, per molti versi accostabili a quelli dei compagni di tour MGMT, Lonerism, invece, gioca la carta della totale freakedelia compositiva ed espressiva, rilasciando un viaggio intorno ad una forma di alienazione alla saccarina.

Tame Impala

Ma dolcificare e alleggerire – come si diceva – non guasta, e non è l’unico ingrediente dell’impasto, visto che il singolo, Elephant, nell’incipit, lascia intendere l’ancora pulsante sbandata per un hard rock d’antan, che poi, però si diluisce, in una più fluida mistura di doorsiana memoria. Momento d’alto godimento è Apocalypse Dreams, gioia del corpo  e dello spirito, con un’alternanza perfetta di forsennata glam dance a strategici e ammiccanti rilasci tensionali, come un pattinare su ghiaccio sintetico masticando una big babol dal gusto allucinogeno.  È una giornata abbacinata dal sole, quella che fa da sfondo all’iper-luminosa intro, Be Above It, come in un teletrasportare i Beach Boys dal tripudio delle onde ad un mega-party diurno in un parco urbano. Todd Rundgren, signore incontrastato del weird pop già ai comandi del remix di Elephant, avrà apprezzato di sicuro Mind Mischief, figlioccia più elettrificata di certe ballate contenute in A Wizard, a True Star. Ma non si può prescindere da un mood beatlesiano, lennoniano, nello specifico, perfettamente incarnato dalla strawberryana Feels Like We Only Go Backwards e dall’incedere autunnale della conclusiva Sun’s Coming Up. Non c’è troppo da stupirsi se, con Endors Toi, si strizza l’occhio allo shoegaze, primo tra i rigurgiti neo-psichedelici. A ben ascoltare, Parker e soci non dimenticano di mostrare il fil rouge tra l’esordio e il prosieguo, se Keep on Lying pare essere la traccia immediatamente successiva a I Don’t Really Mind, adorata chiosa, per chi scrive, di Innerspeaker.

La psichedelia, regina libera da ogni imperativo categorico, è servita, ed il mainstream, con buona pace degli intenditori, è, ancora una volta, fregato.