Dall’alto di un oblò di linea, ciò che mi attende laggiù posso solo immaginarlo. Il pensiero è proiettato a pendolo verso terra, al di sotto di quel marasma di nuvole e smog che non sembra avere nulla di “naturale”, ma piuttosto essere piombato su di noi – intorno a noi – come una maledizione. Non sembra avere capo, né coda, un inizio, né una fine. Pare lì da sempre. Poi, l’aereo inizia a fendere quella torbida attesa, abbassandosi con ampie circonvoluzioni a spirale. Imitando goffamente i predatori dell’aere, ci avviciniamo al suolo con una lenta discesa; la preda sempre lontana, toujours insaisissable. Rimane difficile scorgere la città nei suoi contorni architettonici, sebbene sia ormai a poche centinaia di metri sotto di noi – I feel it – e ancor più difficile è rintracciare il formicaio di persone che la abitano. Rimaniamo sospesi in un limbo di possibilità esistenziali: it could be, it should be. Probably. But nobody really knows. Posso solo immaginare, da lassù, quel che mi attende, laggiù; ripassare le suggestioni di cui mi sono infarcito la testa; sbrigliare i miei pensieri lungo i sentieri del possibile. Mais rien d’autre.
Poi l’aereo atterra tra campi rinsecchiti, una pista asfaltata e torrette impagliate, e lo fa con quell’incertezza calcolata che solo i veivoli sovietici out-of-date riescono a trasudare ad ogni viaggio ben concluso. Infilo A Quiet American – comprato di seconda mano in un chiosco di Kuala Lumpur – nello zaino, bevo l’ultimo sorso d’acqua dalla bottiglietta che ci è stata consegnata all’inizio del viaggio, e mi accodo verso l’uscita, salutando le graziose hostess rigorosamente ingessate nei loro minuscoli talari multicolor. Appena fuori, la stagnazione climatica tipica delle zone tropicali – così dannatamente pregnante e pervasiva – mi soffoca il battito in gola. Inizio a respirare affannosamente l’aria fuligginosa che tutto avvinghia. Il mio sguardo si muove rapidamente da un punto all’altro, vicino, lontano, poi ancora lontano e infine di nuovo vicino. Impressions. Mentre scendo le scalette, cerco di abituarmi all’uggiosità abbacinante della luce, i cui toni – lo scoprirò presto – sono perennemente contraddistinti da un grigiore mono-tono, compatto e melassato, che sembra far dimenticare l’esistenza del dio sole. Chiudo gli occhi e prendo due lunghi respiri; quando li riapro mi ritrovo a pochi passi da un’altra hostess che mi sorride in modo convinto e convincente, indicandomi con la mano il percorso da seguire. Sorrido a mia volta: a lei, al mondo, e realizzo, specchiandomi nei suoi occhi felini e olivastri, che sono davvero giunto a Saigon.
Attendo oltre un’ora all’Ufficio Visti. Il tempo scorre lentamente, scandito dalle pale del ventilatore e dal quieto temporeggiare di alcune guardie che entrano ed escono da una porta secondaria con apparente illogicità. Il loro incedere è senza meta e il loro affaccendarsi senza voglia: ragazzini di appena diciott’anni, forse venti, con indosso divise marroncine di una taglia più grande, rinforzate con enormi spalline per rendere vagamente più statuari i loro corpi. Inizio ad avvertire la stanchezza del viaggio, Del fuso orario. Delle ore insonni passate all’aeroporto di Kuala Lumpur dove ho fatto scalo la notte precedente. L’atmosfera è silenziosa, indolente, un po’ impigrita. Qualcuno davanti a me si spazientisce per l’attesa. “I’m American” sento argomentare con toni piccati da un corpulento manager incravattato, come se una tale ostentazione figurativa e nazionalista – proprio quaggiù, per giunta – potesse rappresentare una possibile parola-chiave per vedersi dispiegare dinanzi una lunga serie di tapis-roux. Mon cher, le naif. Quanto a me, stravaccato su una piccola sedia di plastica fuori dall’ufficio, non ho davvero la forza di obiettare alcunché. Per quanto ne so, potrebbero anche aver perso il mio passaporto, o avermi rigettato il visto. Quasi mi appisolo attendendo il mio turno, finché qualcuno, oltre il desk, fa il mio nome. Mi rianimo, raccolgo in fretta la mia roba e quando mi avvicino mi viene restituito il passaporto con all’interno diversi timbri della Repubblica Socialista del Vietnam. La mia mente subito si riaccende di fantasie esotiche, di libri, film, documentari (rigorosamente tutti Western-produced) a cui mi sono abbeverato prima di partire. Avant le départ, c’était un rêve. But now, it’s all real. Supero il check point e finalmente mi dirigo – mente stanca e gambe intraprendenti – verso la sortie, dentro il Nuovomondo che mi attende.
Il benvenuto è un forum anarchico di clacson e motorini che intasano la strada a moto continuo, noncuranti di semafori, precedenze, segnaletica, pedoni. Eccola qui, la giungla del nuovo millennio; eccolo qui il libero arbitrio progressista nella sua più lucida espressione postmoderna. È una giostra di tumultuosa irrazionalità; ma si tratta solo di apparenza, poiché, a guardar bene, vige un tale sincronismo nel deflusso del traffico che pare di trovarsi di fronte all’operato di una qualche forza cosmogonica. Impietrito, ne osservo ammirato il preciso écoulissement verso mete che ancora non conosco. Gli ingranaggi esistenziali che mi si offrono allo sguardo hanno un effetto quasi ipnotico sulla mia mente a corto di sonno. Non nascondo una certa titubanza nello sferrare il primo attacco a quella che mi sembra ancora una dimensione urbana inavvicinabile. Essere solo spettatore è quasi rassicurante, in fondo, almeno finché qualche mano-lesta non mi passa troppo vicino alla tasca dei documenti. C’est là, que l’enchantement s’évanouit. Mi scuoto l’incertezza di dosso. What Am I here for?! Comprendo che, dopotutto, non c’è alcuna sequenza preordinata da rispettare per immergersi in quella processione carrozzata di auto e moto. Basta lanciarsi. Lasciarsi andare. Tutti insieme, tutti contemporaneamente. Sarà il sincronismo della sopravvivenza – I hope, at least – a gerarchizzare la vita on the road. Be prepared, be ready. Stringo le cinghie dello zaino e mi butto. Che ne so del mondo, io.