I Merya sono un’antica popolazione ungro-finnica vissuta nelle regioni delle attuali città russe di Rostov, Kostroma, Jaroslav e Vladimir. In 400 anni i Merya si sono dispersi negli slavi e sono stati assimilati dai russi, fino a sopravvivere nei pochi discendenti che tentano di mantenerne in vita cultura e tradizioni. I Merya non credono in divinità, solo nell’acqua e nell’amore.
Il fiume russo Neya è uno dei luoghi un tempo abitato dai Merya, la grande via d’acqua che accompagna i due protagonisti del film Silent Souls di Aleksei Fedorchenko. Aist è figlio di un poeta locale e lavora nella cartiera di Miron. La sua voce fuori campo racconta la vicenda in prima persona, rivolgendosi direttamente allo spettatore, che diventa viaggiatore e testimone di antiche usanze di un popolo quasi scomparso. Aist ha ereditato dal padre la vocazione alla scrittura, che usa per raccogliere e documentare tutti i lasciti delle sue origini: nomi antichi di persone e luoghi, villaggi abbandonati, versi di canzoni. Tutto questo per “capire chi siamo”.
Miron è il rude e laconico proprietario della cartiera del paese, si è sposato con Tanya, una ragazza dolce e pingue di vent’anni più giovane. Pur amando la moglie, Miron tratta Tanya come una sua proprietà, credendo, attraverso l’iniziazione al sesso, di possederla anche nell’anima. Alla morte di Tanya, Miron chiede ad Aist di accompagnarlo nel viaggio fisico ed affettivo al rito merya per la dipartita dei defunti.
Il titolo originale del film è Ovsyanki, parola russa usata per indicare gli zigoli, piccoli uccelli simili ai passeri, molto diffusi in Russia. Poco prima di ricevere la proposta di Miron, Aist compra una coppia di zigoli, attirato dal loro verso che gli richiama qualcosa del passato, dell’infanzia. Dopo aver parlato con Miron, l’unica cosa che porta con sé è la gabbia con gli zigoli, simboli del viaggio estremo dalle origini alla morte: nel percorso il vedovo ricorda che il nome degli uccelli richiama al cognome di Tanya, da cui il soprannome “zigolina”.
Il rito merya del matrimonio prevede che, prima della cerimonia, le damigelle annodino delicatamente al pube della futura sposa tanti fili colorati, che lo sposo poi dovrà slegare e attaccare ad un albero nella notte di nozze. Lo stesso rito viene ripreso al momento della morte di una donna, a cui il marito annoda nuovamente i fili colorati prima di bruciare il corpo. Nello spostamento per raggiungere il luogo della cremazione, il marito deve raccontare al compagno di viaggio episodi della vita intima della coppia, ricordi e particolari della defunta che non direbbe mai ad un estraneo, in questo modo il dolore può trasformarsi in tenerezza. Miron non sceglie casualmente Aist per l’estremo saluto a Tanya, sapendo bene di non essere l’unico ad aver amato la donna.
Il film intreccia differenti piani temporali e narrativi; dalla vicenda presente partono diversi flashback: le immagini della vita coniugale di Miron, gli episodi della storia tra Aist e Tanya e i suoi ricordi legati al padre, alla morte della madre.
Il viaggio dei due protagonisti non si conclude con la cremazione del corpo di Tanya: il grande sogno dei Merya è l’acqua, le ceneri del defunto infatti devono essere poi sparse in un corso d’acqua. L’acqua significa l’immortalità, annegare è essere soffocati da gioia, tenerezza e desiderio. L’acqua del fiume Neya è l’ultimo definitivo incontro per i due uomini.
Il regista Aleksei Fedorchenko costruisce una sapiente alternanza di parole e silenzi: le parole sono quelle di Miron, a cui Aist assiste in silenzio, lasciando il racconto alla sua voce fuori campo. Miron mette in atto il rito merya con i racconti di dolore legati a Tanya, Aist vuole farsi “collezionista” di ultime parole, versi, nomi dei suoi antenati. Il silenzio è quello dell’ambiente circostante, un paesaggio russo delle zone del Volga, fluido, freddo e rarefatto, con città immobili e boschi di betulle che fanno da sfondo al viaggio dei due uomini.
Festival importanti come Nuovo Cinema di Pesaro, negli ultimi anni, hanno fatto conoscere al pubblico italiano i talenti del cinema russo di nuova generazione, ma è sulla vetrina internazionale di Venezia (2010) che il film di Aleksei Fedorchenko si è presentato come un’autentica rivelazione, vincendo il Premio della Critica Internazionale e quello per la Miglior Fotografia. Regista proveniente dal sud della Russia, si è formato negli studios di Sverdlovsk e poi a Mosca. Nel 2005 si distinse già al Festival di Venezia con il “mockumentary” Pervye na lune (First on the Moon), in cui racconta l’addestramento di astronauti russi che, nel 1938, si preparavano ad uno sbarco sulla luna. Opera dall’alto valore estetico, si avvale di materiali d’archivio, creando un lavoro a metà tra la testimonianza documentaristica e la finzione misteriosa, premio per il miglior documentario nella sezione “Orizzonti”.
Ovsyanki (Silent Souls) rappresenta una tappa della ricerca personale e artistica di Fedorchenko sulle etnie dell’ex-Unione Sovietica, uno studio cominciato con Deti Beloi Mogilyi (Children of the White Grave) del 2003, e che continuerà nella prossima opera Nebesnye ženy lugovykh mari, ancora in pre-produzione.