È arrivata l’estate e, puntuali come un orologio svizzero, sono arrivate anche le repliche televisive di Sister Act e Sister Act 2. Sul perché e il per come un film a basso costo sia diventato uno dei fenomeni degli anni Novanta, tanto da riuscire a risanare per un po’ le già disastrate “casse” della Walt Disney Company, non è un mistero per nessuno: l’istrionico talento di Whoopy Goldberg, la colonna sonora curata alla perfezione dal tre volte candidato all’Oscar Marc Shaiman, un gruppetto di suore che si danno al soul e al rhythm’n’blues e il gioco è fatto.
Inizialmente, il progetto non prevedeva la presenza di Whoopy Goldberg, ma quella di Bette Midler, all’epoca nota interprete di film musicali, la cui carriera come attrice comica era stata lanciata proprio dalla Disney grazie a blockbuster quali: Su e giù per Beverly Hills (1986), Per favore, ammazzatemi mia moglie (1986), Una fortuna sfacciata (1987) e Affari d’oro (1988). Gli sceneggiatori, però, decisero che l’inserimento di una donna di razza caucasica all’interno di un convento di suore tutte caucasiche non sarebbe stato di grande effetto, così decisero di ingaggiare un’attrice afroamericana: Whoopy Golberg. Essendo, appunto, un film a budget ridotto, il prezzo del suo ingaggio non superò i 600.000 dollari (che cinematograficamente parlando sono una miseria, ma per i comuni mortali no). Ad affiancarla nel cast furono chiamate l’attrice inglese Maggie Smith (nel ruolo della madre superiora), il cui ultimo film di successo era stato lo spielberghiano Hook – Capitan Uncino (1991); l’americana Kathy Najimy (Suor Maria Patrizia), che aveva avuto una particina in La leggenda del re pescatore (1991); l’americana Wendy Makkena (Suor Maria Roberta), appena uscita dall’ennesima serie TV e Harvey Keitel (Vince LaRocca), la cui carriera parlava già da sola.
Il film era senza pretese e la trama sottile come la carta velina, alla Disney bastava che gli incassi superassero i costi sostenuti e fine del discorso. Del resto, erano abituati a sfornare film non troppo impegnativi destinati alle famiglie. La prima sorpresa arrivò con il visto della censura, che attribuì alla pellicola il Rating PG, cioè “visione consigliata con la presenza di un adulto”. Nella motivazione si legge che il film contiene una scena di sesso appena accennata all’inizio (chiamarla scena di sesso è un eufemismo), un colpo ben assestato al basso ventre quasi alla fine (“Ah, sì, quando lei cerca di scappare dagli scagnozzi di Vince! Ma altre avrebbero fatto di meglio!”), e alcune battute leggermente blasfeme sparse un po’ qua un po’ là (“Roba da traumatizzare i pesci rossi!”). La Disney accettò il Rating e non si lamentò, aveva altro a cui pensare. Ad esempio la burrascosa relazione tra Whoopy Goldberg e Ted Danson, che finiva sui giornali scandalistici un giorno sì e l’altro pure, i pessimi rapporti tra la Goldberg, la Najimy e la Makkena (quest’ultima fu l’unica attrice ingaggiata senza saper cantare e, nel finale del film, quando canta in assolo I Will Follow Him fu doppiata da Andrea Robinson, il che scatenò un vero e proprio putiferio sul set), e il regista cinquantenne Emile Ardolino che stava morendo di AIDS.
La tempesta mediatica produsse, comunque, i suoi frutti: il film balzò in testa alle classifiche con incassi da record, e la critica fu unanimemente positiva… si esigeva un sequel. La Walt Disney Company si affrettò a trovare un nuovo regista – Ardolino morì l’anno dopo l’uscita del film – e contattò nuovamente la Goldberg, che però rispose picche. L’atmosfera che aveva respirato sul set del primo film non le era piaciuta proprio per niente, e non aveva alcuna intenzione di rilanciarsi nell’impresa. La casa di produzione pensò bene di offrirle sette milioni di dollari in cambio della promessa di mantenere la bocca cucita su qualsiasi cosa non fosse di suo gradimento durante le riprese, la Goldberg incassò i soldi, la Najimy e la Makkena furono relegate in un ruolo minore e il putiferio ricominciò.
Per selezionare i giovani componenti del coro furono provinati più di tremila ragazzi provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti. Per alcuni, quella selezione si rivelò un vero e proprio trampolino di lancio: Laurynn Hill (nel ruolo della ribelle Rita) entrò a far parte del gruppo dei Fugees e si distinse per le dure parole con cui additò la Chiesa durante un concerto in onore del Papa; Jennifer Love Hewitt iniziò una brillante carriera di attrice entrando nel cast di alcune celebri serie TV come Party of Five e la più recente Ghost Whisperer; Ryan Toby si mise a scrivere canzoni rap per famosi artisti come Usher; Valeria Andrews compose il testo di Pay Attention, contenuta nella colonna sonora del film, e continuò a lavorare come attrice e cantautrice.
Come per il primo film, anche in questo caso a farla da padroni furono i pettegolezzi; il più succoso rivelava che tra le giovani interpreti-cantanti ci fosse anche la figlia ventenne della Goldberg, Alexandra Martin. L’attrice prima smentì e poi confermò, sfidando i giornalisti ad individuarla. Per la cronaca, ancora oggi ci sono persone che si divertono a giocare con il fermo immagine del lettore DVD.
Nonostante il grande dispendio di mezzi, vedesi soprattutto la sequenza iniziale in cui la Goldberg canta un medley di ben venti canzoni, Sister Act 2 non riuscì a replicare il successo dell’originale, anzi la critica americana lo stroncò in pieno. “La parte più bella del film”, scrisse il giornalista James Berardinelli, “è quando cantano tutti assieme Ain’t No Mountain High Enough (i titoli di coda), il resto si può anche non vedere perché manca di quel brio e quell’esuberanza presenti in Sister Act”.
La critica italiana apprezzò la pellicola molto più di quella americana e i due film si trasformarono in un fenomeno di costume che ancora oggi vanta molti tentativi, non riusciti, di imitazione. Sister Act 3, per il quale la Goldberg aveva già detto no invitando la produzione ad assumere al posto suo una delle ragazze presenti nel secondo film, non fu mai girato.