Nella città che censisco i rom vivono in roulotte parcheggiate attorno ad un cortile fangoso che guarda la tangenziale. A sua volta le roulotte guardano un container in cui vive l’anziana donna del campo, che sta sempre seduta in una di quelle poltrone da televendita in una stanza color salmone dal clima tropicale. Attorno a lei altre donne, che sembrano tutte imparentate tra loro ma poi scopro che hanno cognomi diversi e i figli portano il cognome materno. Hanno tutti la cittadinanza italiana, non possiedono cellulari sebbene non si separino mai da suddetto apparecchio. Nessuno di loro ha una macchina di proprietà, non si sa di chi siano, dunque, quelle parcheggiate fuori. Non hanno un lavoro e non sanno né leggere né scrivere, esclusi quelli in età scolare.
Mi fa sorridere la loro astuzia da scuola di strada, mi sono chiesta cosa si provi a non saper leggere, che senza troppe derive intellettuali mi pare comunque una cosa indispensabile per la vita di ogni giorno. Mi sembra sia anche necessario per prendere la patente, e la donna che si è appena dichiarata analfabeta era di fretta perché doveva andare a prendere i bambini a scuola, con la macchina che ha appena detto di non avere. Mi chiedo se sia più sciocca la mia smania indagatrice o la loro noncuranza nel non voler nemmeno tentare di nascondere bugie sommarie, la totale indifferenza per tutto ciò che concerne le tradizioni non orali.
Dopo aver registrato decine di nomi e informazioni, mi accompagna alla macchina il capofamiglia, che si accende una sigaretta e domanda se la mia macchina è diesel, asserisco, quindi mi chiede se gliela vendo e quando dico che mi serve, accenna un inchino e mi congeda.