Una vera e propria caccia mediatica all’uomo – o almeno a quello che rimane dell’umanità in questo futuro not too distant. A metà tra le macchiette blasonate de La Decima Vittima di Elio Petri e la spettacolarità senza scampo di The Running Man (ve lo ricordate l’ex Governatore Schwarzenegger alle prese con il letale reality?), questo Hunger Games pare abbia conquistato proprio tutti. A onor del vero, anche la base narrativa su cui poggia questo ennesimo survival reality è vincente, l’omonimo romanzo di Suzanne Collins (primo capitolo di una trilogia) è tra i bestseller statunitensi già dal 2009.

Jennifer Lawrence in Hunger games

 Capitol City è la capitale di un impero futuro che ricopre più o meno la superficie degli Stati Uniti d’America, e si chiama Panem. I “Circenses” del caso sono gli Hunger Games, istituzione spettacolare – nata per ricordare l’ultima rivolta delle colonie – che porta nell’arena mediatica i “tributi”: un ragazzo e una ragazza provenienti da ognuno dei 12 distretti di cui è composto lo Stato. Fame e povertà sono ancora ben presenti, specialmente negli ultimi distretti – l’11 e il 12 – mentre la capitale è opulenta oltre ogni dire. La stratificazione di questa distopica e dispotica società futura è estesa sul livello orizzontale piuttosto che in verticale (come in altri mondi futuri, ad esempio Nathan Never), prova ne è l’enorme distanza che separa Capitol City e il distretto 12, da cui provengono i due protagonisti del film. Protagonista del film è Katniss Everdeen, una sedicenne che per salvare sua sorella minore si sacrifica offrendosi volontariamente come tributo ai Giochi della morte. Il suo compagno di disavventure è Peeta Mellark, con cui dovrà confrontarsi anche a livello sentimentale durante la storia. 

Tutto è artefatto nella società degli orrori prossima futura: in questo survival reality in salsa sci-fi la vita dei personaggi è affidata agli sponsor. La spettacolarizzazione della vita (e soprattutto della morte) di questi tributi è direttamente proporzionale alla loro capacità di attrarre audience. Ad aiutare e spalleggiare i tributi di cui seguiamo l’intera evoluzione (passando per il reclutamento, l’addestramento e la lotta senza esclusione di colpi) vi sono figure di contorno quali il cantante Lenny Kravitz (a suo agio nei panni di uno stilista dal cuore tenero) e Woody Harrelson – che non si vedeva così “fatto” dai tempi di A Scanner Darkly – nel ruolo di Haymitch Abernathy, mentore ubriacone ex vincitore dei giochi.

Lenny Kravitz, Woody Harrelson e Josh Hutcherson in Hunger games

Altro fattore interessante di questo film è che la regia è affidata a Gary Ross, che in Pleasantville già aveva affrontato il tema di quanto la fiction possa influire carambolando sulla realtà. Inevitabile il confronto anche con una pellicola fondamentale come The Truman Show, poiché molto di quello che accade nell’arena degli Hunger Games è pianificato e calibrato fino all’ultimo secondo per avere la resa migliore sia da un punto di vista scenografico che socio-politico. A vestire i panni del demiurgo malvagio, c’è un grandioso Donald Sutherland, Wes Bentley, invece, funge da regista dietro le quinte mentre colui che deve ancorare il grande pubblico davanti ai teleschermi e nei talk show è un truccatissimo Stanley Tucci.

Tra le fonti d’ispirazione dichiarate ci sono ovviamente il “Panem et Circenses” offerto dai gladiatori dell’antica Roma, il mito greco di Teseo oltre la quotidiana dose di orrore propinataci – rispettivamente – sia dai reportage di guerra che dai reality sulla falsariga del Grande Fratello, aborto mediatico assurto a re degli ascolti ad opera di una massa di de-celebrati (l’Homo Videns di Sartori è dietro l’angolo) mentre curioso è il gioco linguistico del titolo, che equivoca sul doppio significato di Hunger: fame (e sete, anche in senso figurato) nonché brama e desiderio. Ottimamente pensato per questa pellicola che passa dal sudiciume dello slum del dodicesimo distretto (si mangiano topi, uccellini e conigli quando va bene) all’opulenza stratosferica di Capitol City, dove conta solo l’apparenza.

Facendo una carrellata a ritroso, la violenza mediatizzata di Hunger Games si ricollega ad altre sanguinose dispute a squadre portate sul grande schermo (solo in ambito ludico ci sono i film Rollerball, Death Race o Anno 2000 La corsa della morte) o sulla carta stampata (i critici più accorti hanno ravvisato subito la parentela con il romanzo d’esordio Lotteria dello Spazio di Philip K. Dick ma si potrebbe annoverare anche Boston 2010:XXI Supercoppa di Gary K. Wolf, oltre, ovviamente, a La settima vittima di Robert Sheckley, da cui Flaiano sceneggiò uno dei capolavori di Elio Petri). 

Jennifer Lawrence e Elizabeth Banks in Hunger games

In ogni caso, qualche riflessione di tipo antropologico emerge dalla visione, anche se ovviamente il mondo cinematografico scricchiola al confronto della ricchezza di dettagli contenuti nel primo romanzo della Collins. In realtà, l’intersezione – riuscita solo in alcuni frangenti – tra le diseguaglianze sociali e la rappresentazione spettacolarizzante della lotta nell’agone mediatico ricorda in qualche maniera anche District 9, altro film fantascientifico dove l’invasione aliena in una baraccopoli di Città del Capo era ovviamente un pretesto per affondare con decisione su un tema molto sentito, l’apartheid. 

Com’era prevedibile, i lavori per i due sequel sono già iniziati dopo il successo al botteghino ottenuto da questa pellicola, e speriamo che stavolta la spinta non si esaurisca come in altre saghe di analoghe proporzioni, Harry Potter in primis.