Apre la porta un giovane dall’aria mansueta che scopro essere di due anni più vecchio di me. Ha il volto pallido e immagino sia per i turni, che fa nella grande acciaieria che in lunghezza occupa mezza statale. Il bambino ha poco più di un anno e ignora il grande trattore a pedali che sta al posto del tavolo in salotto. La casa è appena stata imbiancata, si sono trasferiti da poco. Profuma di pulito. 

La moglie arriva con una cartella ordinatissima di documenti, i colori non familiari della burocrazia di altre nazioni, i timbri sui documenti, le tessere non più annonarie ma annuali, pane garantito se si adempie alle regole del soggiorno. 
Questa famiglia ha appena festeggiato il contratto a tempo indeterminato dell’intestatario dell’abitazione. Un sollievo, che però lascia lui un po’ attonito, spaventato dall’impegno senza scadenza, quel “per sempre”: una durata così incalcolabile da sembrare effimera.

Prima che nascesse il bambino lei faceva la falegname. In Romania, dopo la mattina a scuola, i ragazzi vanno in fabbrica ad imparare un lavoro. Eredi di un mondo che ha imposto la fatica e la mendace uguaglianza come miraggio della libertà. Per poi essere costretti ad adeguarsi nel labirinto coatto dell’altrettanto mendace possibilismo.