Gli occhi della nonna ucraina mi ricordano quelli descritti da Grass del suo Tamburo di latta, occhi caucasici come specchi di ghiaccio. Ha i denti ricoperti d’oro, il foulard in testa e non conosce una parola d’italiano. La figlia, in compenso, mi racconta fiera di aver comprato l’appartamento, di essere infermiera e che qui, però, può lavorare solo in qualità di operatrice sanitaria. L’hanno assunta le suore, che provvedono anche a procurarle vestiti che lei spedisce a cugine e parenti in Ucraina. Là il costo della vita ha raggiunto livelli proibitivi, a lei non manca nulla del suo paese, ha lasciato in patria un marito dal quale ha divorziato, ricorda che lui perse il lavoro all’indomani del loro matrimonio perché era proibito sposarsi in chiesa. “I bambini li abbiamo battezzati di nascosto durante la notte”. Ha portato in Italia il figlio di vent’anni e mi dice a malincuore che non ha potuto permettersi di farlo studiare. È amareggiata che il ragazzo debba alzarsi alle cinque per andare a lavorare come magazziniere, sta sempre davanti al computer, lei non capisce niente di tecnologia, ma, a quanto dice suo figlio, è un mondo pieno di divertimento. “Ma non come avere degli amici veri”, mi dice lei facendomi scivolare nella borsa una manciata di cioccolatini.