Lucio Dalla in questi giorni è probabilmente stato un paradosso di se stesso; certo in un tempo in cui è più facile ringhiare durante una cerimonia funebre, parlare di omofobia e di omosessualità, soffermarsi a far ricadere le colpe di biblica memoria su una società che non capisce, dimenticando che in una chiesa, in una bara, c’è quello che rimane di un uomo e di un artista.
Ecco, quindi, che il buonismo tipico degli italiani di fronte alla notizia tremenda della morte di Lucio Dalla si trasforma in altro, diventi fattore programmato e mediatico, allontanandosi così dal dolore di chi soffre e dal dolore di chi preferisce il silenzio ai grandi bandi, ai manifesti contro una società che non capisce.
Ma se questa società, la nostra s’intende, del governo di Mario Monti, della Cei che sconsiglia di eseguire le musiche dell’artista in chiesa, che sconsiglia di comunicarsi se non si è in pace con dio (leggi avere una vita moralmente retta) s’intristisce per la morte dell’uomo, usa parole di amore e di senso di perdita, come avrebbe mai potuto comprendere uno spirito non convenzionale come quello di Lucio Dalla? Ecco, dunque, il paradosso: si parla di Dalla senza conoscerlo, mettendo così in discussione la sua stessa esistenza, la sua stessa opera. Tutto ciò è privo di senso, poiché rispetto alla morte siamo ancora molto primitivi, non l’accettiamo e soprattutto facciamo di tutto per sminuire il dolore che si prova nel distacco.
Così, per le due reti Rai è più facile affidare un evento mediatico, come può essere un funerale (ulteriore paradosso: un funerale può essere nella sua natura un evento mediatico a dispetto del contegno e del silenzio che esso stesso richiederebbe?), ad un imbonitore di piazze come Giletti e a una giornalista di larghe vedute come la Annunziata.
In verità si rimane stupiti, instupiditi da tanta inutile follia di parole, da tante memorie e parole che ricordano l’uomo buono, da tante domande se sia giusto o meno che un omosessuale faccia outing e si distacchi dalla fede cattolica, se il compagno abbia o no il diritto di piangere al mondo (mediatico) il proprio dolore per la forte mancanza che significherà questa assenza. Allora dov’è l’apporto mediatico in cui Dalla aveva tanto creduto, quello di coniugare cioè l’arte del bello con la comunicazione elettronica? Dove sono finite le sue lezioni tenute da una cattedra universitaria, dov’è finita la storia di un artista che ha sempre cercato il bello della vita a dispetto di tanta inutile bassa cultura? Non lo sappiamo, non vogliamo saperlo!
Pensiamo che sia molto triste parlare di un uomo come se fosse nostro fratello o un parente vicino, come se ci fosse una frequentazione giornaliera e privata.
È mortificante ridurre la vita privata di questa persona ad una serie di discorsi imbarazzanti: l’eredità, l’omosessualità, il cattolicesimo. È un brutto segno dei tempi quello di sentire il bene comune come proprio e assimilare quello privato a se stessi. Ci sfugge un particolare: che l’uomo nasce per morire ma lascia un mandato, quello di trovare le tracce del passaggio a chi sa vedere e sentire. Magari nel silenzio di un fiore, nel pianto dirompente, nell’antro di una storia, nel momento stesso in cui tutto scorre e si sta seduti ad aspettare che il cadavere del nemico passi. Forse questo non è mediatico, forse nel nostro senso comune si può ancora ritrovare il senso privato, sottratto agli altri appunto, senza vergognarsi di essere soli, in continua contraddizione.