In un tempo remoto, quando il cinema era ancora giovane e la politique des auteurs nemmeno all’orizzonte, prese a circolare, nell’ambiente, l’interrogativo, per nulla scontato, su chi fosse l’autore di un film. Il produttore? Il regista? Qualcuno si spinse ad azzardare, come risposta, la diva. Ecco, quest’ultima e fantasiosa soluzione sembra attagliarsi perfettamente al caso di The Iron Lady. Perché, sebbene il divismo che ha illuminato il cinema classico sia materia per archeologi, il biopic sulla statista più ferrea d’Europa si nutre, disseta e, di conseguenza, vive, fondamentalmente, del fregolismo e della malia di Meryl Streep, ennesimo sortilegio che l’attrice scaglia sugli spettatori, ennesimo travestimento già incensato dal Golden Globe e proiettato verso l’Oscar. Per Meryl, il terzo. Il volto, il corpo di camaleonte che, in quasi quattro decenni di carriera, ci hanno risucchiato con le espressioni, le movenze, i gesti, le personalità di una newyorkese radical-chic sagomata dall’indimenticabile bianco e nero di Gordon Willis, di una starlette dissestata da diabolici elisir di giovinezza e dagli effetti strabilianti di Zemeckis, di un alter ego di Anna Wintour più dispotico dell’originale, di una suora coraggiosa e tormentata dal dubbio, di una cuoca dalla formosità gioconda e invitante come i piatti creati; ebbene, il volto, il corpo tornano ora, incorniciato, l’uno, da una chioma cotonata e stretto, l’altro, in tailleur di foggia irresistibilmente puritana ma non privi di una sottile civetteria. E insieme alle acconciature e agli abiti, uno sguardo pervicace, tagliente, orgoglioso, una gestualità nervosa di scatti veementi e impeccabile ricomposizione del decoro, ammorbidita, talvolta, da segnali d’inaspettata dolcezza. E ancora, un personaggio di cui la sua sublime interprete sa cogliere, e comunicare, vittorie e sconfitte, splendori e miserie.
Scritto da Abi Morgan (Shame) e diretto da Phyllida Lloyd (Mamma mia!), The Iron Lady, in bilico tra pubblico e privato, realtà e fantasia, ricostruisce tutte le tappe salienti dell’esistenza di Margaret Thatcher, nata Roberts, rampolla non di un Lord ma di un droghiere (e tory fervente) di Grantham. Gli studi a Oxford, l’incontro e l’amore con Denis Thatcher, i figli, i primi passi in politica. Poi, l’involata. L’elezione alla Camera nel 1959, il Ministero dell’Istruzione durante il governo Heath, la leadership del partito conservatore. È il 1979 quando “Maggie” viene eletta premier. L’Ira, che ha già ucciso il suo portavoce, stringe la Gran Bretagna nella morsa della paura e la recessione minaccia l’economia del Paese, eppure lei non si lascia intimidire. Sopravvissuta all’attentato di Brighton, bersagliata dalla contestazione incessante dei minatori e delle parti sociali, perseguirà ostinata il suo disegno liberista e intransigente, autentico sigillo degli anni Ottanta. La riconquista delle Falklands, rivelatasi una lauta polizza propagandistica, le assicurerà una seconda elezione, alla quale seguirà una terza. L’isolamento a cui la famigerata Poll Tax la conduce all’interno della sua stessa fazione, la obbligherà, nel 1990, alle dimissioni anticipate.
Il film dipana la sua matassa narrativa tirando il filo della memoria sbrindellata e irregolare da cui Margaret, ormai anziana, è abitata e assalita, dei ricordi di una mente che sta svanendo la cognizione del presente perché risospinta, con prepotenza, nel passato. La decisione di riordinare l’armadio di Denis, morto da alcuni anni, innesca un corto circuito temporale. Ed è così che una tazza di tè rievoca, proustianamente, il destino della madre e di tutte quelle donne condannate a lavare le tazzine mentre gli uomini discutevano di politica, ciò a cui Margaret, fin da ragazza, quando a impersonarla è la brava Alexandra Roach, si ribella. Alcuni vecchi filmini rivangano momenti di un’intimità familiare già braccata dall’ambizione della giovane signora Thatcher. Nei continui rimbalzi cronologici come nelle chiacchierate tra la protagonista e il fantasma del marito, il poetico Jim Broadbent, premuroso con la sua Maggie quanto lo era Tom con Gerri nell’incantevole Another year, il film segue il drammatico andamento dell’Alzheimer di cui il personaggio inizia a soffrire.
Chi cercasse in The Iron Lady un pamphlet anti-thatcheriano, uscirà di sala umiliato e offeso. Ed è questa la ragione per cui, in patria, gli antagonisti storici della Thatcher hanno disertato le proiezioni. “Non si tratta di un film politico, ma di un film quasi shakespeariano”, dichiara la regista nell’intervista contenuta nel press-book. Ben distante dalle pellicole dissacranti e polemiche che, nell’era Thatcher, contribuirono a rilanciare il cinema britannico sul teatro internazionale, l’opera della Lloyd condisce con i sapori della commedia (le diverse occasioni in cui Margaret rivela un’angolazione buffa o genera uno sketch divertente) un racconto che si struttura essenzialmente secondo le leggi della tragedia. Eroina o anti-eroina che sia, negli spazi di una sceneggiatura che inclina alla simpatia umana più che istituzionale per la sua protagonista, la Lady di ferro incarna il potere che, nella dismisura di se stesso, nella tracotanza di decisioni fatali, in ciò che i Greci, con una parola, nominavano hybris, determina il suo sconquasso. Dopo l’ascesa, la caduta.
Il film testimonia entrambe, all’insegna di un’esuberanza e di un esubero di contenuti ai quali una sforbiciata e magari un po’ di didascalismi in meno non avrebbero certo nuociuto. Se, tuttavia, la ricostuzione della parabola ascendente è capace di emozionare, il capitolo della débâcle paga un dazio salato agli eccessi retorici latenti, a dirla tutta, fin dal prologo. Finché si tratta di seguire l’interpretazione femminista che la sceneggiatrice assegna alla caparbietà di una giovane donna, figlia di un bottegaio, davanti a un partito, androcratico e altoborghese, che le è ostile, ci lasciamo coinvolgere volentieri. Ed è, in fondo, piacevole lasciarsi sedurre dalla tenacia con cui la signora, al motto di “non conta ciò che si è stati, ma ciò che si vuole diventare”, affronta il salto di qualità (e di grado), tra consiglieri dell’immagine ed esercizi di modulazione vocale che ricordano un po’ le sedute logopedistiche di Colin Firth nel Discorso del re. Digerire, però, l’uscita da Downing Street sulle note e sui gorgheggi della Norma di Bellini è forse pretendere troppo. Anche se a domandarlo è una (casta) diva come Meryl.