Se per Elio Petri la classe operaia va in Paradiso, per Giuliano Montaldo, che dalla prossimità umana e professionale con Petri, come con Carlo Lizzani, Gillo Pontecorvo, Francesco Rosi, ha tratto linfa ispirativa e vocazione al cinema impegnato, la borghesia brucia all’inferno. E non in gironi ultraterreni; in un inferno che incendia questo nostro mondo e questa nostra epoca.
Due scene dell’Industriale, in sala dopo la presentazione, fuori concorso, al Festival di Roma, riferiscono, al meglio, i temi su cui s’arrovella il film e, al contempo, il sentimento che lo cinge, l’atmosfera che lo avvinghia. L’insegna in pietra delle dismesse officine Ranieri che si sgretola nelle mani di un Nicola sgomento e lo stesso Nicola che consuma una cena solitaria e nervosa nell’opulenza sibaritica della sua villa. Il capannone dove la famiglia Ranieri diede inizio, in anni migliori, a un’avventura imprenditoriale coronata dal successo e l’erede di tutto ciò a mollo nella disperazione. La fabbrica ormai ridotta a un rudere perché lasciata per sedi più attrezzate e prestigiose e un uomo, ripreso dall’alto, come spesso accade a personaggi sovrastati da forze avverse, annegato nel silenzio di una sala da pranzo che piange un’assenza. L’assenza di Laura, moglie amata con passione e trasporto, eppure sempre più distante. La difficile congiuntura economica ha inciso in misura esiziale sull’azienda torinese di pannelli fotovoltaici di Nicola. Le banche prosciugano i capitali. Le ipoteche squalificano le garanzie immobiliari. Nicola non ha via di scampo. Rifiutato, per orgoglio, l’aiuto della suocera ricca e maligna, non si arrende alla prospettiva di consegnare la fabbrica ereditata dal padre a un gruppo tedesco. Nel frattempo, il sostegno, per lui vitale, di Laura, ragazza sensibile e fondamentalmente inappagata, si incrina, quando lei inizia a risentire del fascino di un giovane e innamorato garagista romeno, Gabriel. Ingegnatosi per salvare ad ogni costo l’industria, Nicola, con metodi tutt’altro che trasparenti, riuscirà a evitare lo sconquasso temuto (o così crede), ma le azioni torbide a cui l’ha spinto l’allontamento di Laura condurranno al definitivo collasso il suo matrimonio.
Montaldo ci ha abituati a figure d’individui in lotta con un sistema ostile, basti pensare alla sua pellicola più celebre, Sacco e Vanzetti. Ma se la storia dei due anarchici italiani condannati iniquamente dalla giustizia d’oltreoceano narra di due innocenti inabili ad affermare le loro ragioni, al centro dell’Industriale vi è uomo tanto ardimentoso nei duelli contro un sistema creditizio perverso e un universo di sciacalli, quanto marchiato dalla colpa. Nicola Ranieri non è, probabilmente, un cattivo, quando lo conosciamo, né lo diverrà del tutto con l’andar degli eventi. Ma le ossessioni in cui precipita risvegliano in lui una fiera dormiente capace di brutalità inaudite, come il sottile talento italico per la truffa e l’inganno.
La nota attitudine del regista per l’affabulazione si esprime in un racconto teso e viscerale, in cui anche le poche battute distensive suggeriscono che il peggio è dietro l’angolo, pronto ad avanzare. I personaggi vengono graffiati e scavati da un sceneggiatura impietosa, redatta a quattro mani da Montaldo e Andrea Purgatori, per il quale Fortapàsc, da lui scritto e diretto da Marco Risi, è quasi un’autocitazione (è il film che si vede, a un certo punto, in tv). A calarci nell’incubo del protagonista contribuisce anche l’agghiacciante fotografia del magistrale Arnaldo Catinari, imperniata su una decolorazione delle immagini che riconduce la naturale policromia al grigio: la nebbia di Torino e le caligini, ancor più tetre, che infestano la mente e il cuore. E nel grigiore del loro destino brancolano i personaggi, quelli principali in primis, esaltati dalle interpretazioni impeccabili di un Pierfrancesco Favino dall’accento piemontese ma, soprattutto, di un’impenetrabile Carolina Crescentini, alla sua seconda collaborazione con Montaldo dopo I demoni di San Pietroburgo. In materia d’attori, una citazione la merita indubbiamente il critico cinematografico Steve Della Casa, che si ricava un cammeo sui generis nella parte di uno degli operai.
Sposando thriller e mélo, L’industriale, un occhio alla società e uno all’anima, compie un’investigazione psicologica ed esistenziale tutt’altro che scontata. L’attrazione-repulsione fra i sessi e tra personaggi condannati a infelicità e alienazione nelle sfere del capitalismo d’assalto, dove speculazioni e investimenti sfondano la coscienza, può evocare L’eclissi di Michelangelo Antonioni, che, però, Montaldo imbottisce di sottotrame, suspense, azione. Se, dall’altra parte, l’incursione nei territori della borghesia magnatizia è coincisa, nel cinema italiano degli ultimi anni, con un dynastic-movie viscontiano, ma solo in superficie, come Io sono l’amore di Luca Guadagnino o con l’incerta trasfigurazione di recenti scandali finanziari come Il gioiellino di Andrea Molaioli, L’industriale rappresenta, al confronto, una terza via, di gran lunga più ragguardevole. Stritolato dai debiti e da un’angoscia implacabile, Nicola è una figura balzachiana in cui pubblico e privato si mescolano pericolosamente, mentre nel gioco di specchi tra Crisi economica e crisi personale che il film allestiste prende forma quella ricerca dell’impronta della Storia sull’animo umano che è una delle missioni della grande letteratura (e del grande cinema).