A volte ritornano: una frase fatta, un titolo di un film ma anche una profonda verità. In questo caso però la frase corretta sarebbe: a volte ritorna. Si perché stiamo parlando della Musica Cosmica, la Kosmische Muzak che tanto successo ebbe negli anni Settanta grazie ad entità meravigliose come Faust, Tangerine Dream, Cluster, Amon Düül II, Klaus Schülze e molti altri. Forse i più ricorderanno questi artisti raggruppati sotto il nomignolo di Krautrock. Bene, tale definizione fu coniata, in senso negativo e derisorio, da alcune frange della stampa anglosassone che, si sa, tende sempre ad esaltare le produzioni d’Albione denigrando al contempo quello che proviene da fuori. Mai come nel caso del rock cosmico tale irrisione fu più sbagliata. Al valore innegabile delle composizioni firmate dai progetti sopracitati, va aggiunta l’enorme influenza che tali entità musicali hanno avuto sulle generazioni successive, soprattutto per quanto riguarda la new wave, la new age, l’ambient più elettronica e psichedelica, e le cose più eteree del movimento shoegaze. Alla base del successo di questo genere vi era probabilmente la commistione fra l’avanguardia più sperimentale, in primis Stockhausen, il progressive rock, l’elettronica, le improvvisazioni strumentali tipiche del jazz e un mood quasi sinfonico derivato dai grandi compositori classici tedeschi. Tutto ciò, unito ad una vaga sensazione di esotismo e alla provenienza che finalmente esulava dalle imperanti bands britanniche, contribuì a creare una scena che, pur rimanendo ai margini dello show business, riuscì a ritagliarsi un ruolo di primo piano all’interno della musica underground. Il rock cosmico riuscì a superare indenne l’avvento del punk con la sua semplificazione strutturale e l’uso dei classici “tre accordi in tre minuti”, rimanendo poi latente sia negli anni Ottanta che, soprattutto, nei Novanta.
Da una decina di anni a questa parte sembra di assistere ad un ritorno di quelle sonorità, la cui messa in opera presuppone, oltre che un elevato livello di sensibilità artistica anche un buona perizia tecnica. Fra i diversi gruppi che hanno voluto recuperare quel sound, spiccano gli Emeralds. Questi tre ragazzacci di Cleveland hanno dato alle stampe nel 2010, dopo aver esordito nel 2006 e dopo una pletora di releases, Does It Look Like I’m Here? già diventato una pietra miliare del rock alternativo degli ultimi anni.
All’interno del gruppo si sta caratterizzando in maniera prepotente la figura di Mark McGuire, giovane chitarrista, l’artista di cui ci occuperemo grazie all’uscita della sua ultima fatica da solista, ovvero Get Lost per la Editions Mego. Per prima cosa va detto che la passione per i progetti paralleli sembra essere prerogativa dei membri degli Emeralds, visto che anche John Elliott si diletta a cimentarsi in altri ambiti musicali. A differenza di questi, però, Mark McGuire sembra afflitto da bulimia creativa. Oltre alle uscite a suo nome (circa quindici), si devono contare anche le collaborazioni con diversi gruppi come gli sperimentali Amazing Births, i Fancelions con il loro rock elettronico, e i Telecat Prowlers che si muovono agili nei territori ambient. Ad accomunare tutte queste esperienze c’è la voglia di aprire strade nuove per il rock, contaminandolo con le sorgenti sonore più disparate, e anche questo Get Lost non fa eccezione. La maggior parte dei suoni prodotti sul disco escono dalle chitarre o dai guitar synth, e ogni pezzo è indirizzato a suggerire sensazioni o creare visioni di mondi alternativi.
Già il primo pezzo When You’re Somewhere, mette ben in chiaro ciò che ci sarà all’interno del disco. Nessuna concessione all’esteriorità, all’apparenza, nessuna esibizione iperbolica di talento e perizia tecnica, ma solo pura introspezione. L’inizio è soffuso, e il tempo sembra suggerire panorami sudamericani, bacini e anche che si muovo a ritmo di samba. Ma tutte queste percezioni sembrano vissute attraverso una strato di nebbia, indistinte e sfuggenti. La chitarra disegna una melodia lieve ma aperta e solare, che va via via rinforzandosi con l’ingresso in scena della chitarra elettrica che irrobustisce il tessuto sonoro. Qui McGuire si diletta ad usare la tecnica della stratificazione alla maniera dei primi minimalisti (Ryley e Glass soprattutto), inserendo piccoli motivi melodici che si sovrappongono. In Alma compaiono delle parti vocali che rappresentano un piccola novità rispetto ai lavori passati. La voce però è utilizzata per creare atmosfere rarefatte che vengono accentuate da una chitarra acustica che dà un tocco quasi folk al brano. Se dai primi pezzi la componente space sembra essere stata accantonata, ecco arrivare Another Dead End a smentire questa prima impressione. L’inizio in particolare rimanda direttamente alle cose migliori degli Emeralds, con una sottile chitarra acustica che fa da sottofondo, strano ma vero, a tastiere che disegnano melodie misteriose provenienti dagli spazi profondi. Il crescendo strumentale si interrompe a metà brano per lasciare spazio ad un diverso tema melodico, costruito su un assolo di chitarra, forse l’unico presente in tutto il disco, almeno nel senso canonico del termine. Il suono dello strumento riprende un timbro in voga in certi ambienti metal degli anni Settanta e Ottanta, ad indicare una possibile passione di Mark per quel periodo e per quel genere musicale. In Alma (Reprise) in realtà l’unica cosa ripresa dal pezzo omonimo sono le parti vocali; è molto interessanti l’uso che McGuire fa di queste linee vocali, che sembrano costruite sullo stile dei canti gregoriani, ma con un’anima quasi psichedelica. Il risultato è quello di avere un brano che cresce di intensità senza però raggiungere picchi drammatici, rimanendo, anzi, quieta e ipnotica fino alla fine. Alma (Reprise) fa da introduzione all’ultimo pezzo del disco, una suite di diciannove minuti che, fin dal titolo, rimanda ai corrieri cosmici tedeschi degli anni Settanta. Firefly Constellations è forse il pezzo clou del disco, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto più evocativo e concettuale della sua musica. Il brano parte criptico, un lungo drone di chitarra sintetica con non ben identificati rumori di fondo. Il potere evocativo della musica si fa sempre più forte, decine di suoni si intersecano e si ricorrono a suggerire la cascata di mille rivoli di acqua. Il mood è sereno ed estatico, profondamente ambient nei modi ma anche concreto, con le chitarre che si fanno sottili e lievi diventando il tappeto sonoro per l’ingresso dei sintetizzatori. Il loro suono evoca immagini dallo spazio profondo ,visioni di luci che sfarfallano mentre misteriose interferenze radio cercano di mettere in contatto mondi lontani fra di loro. A riportare la tranquillità ci pensa di nuovo una chitarra contemplativa, la calma dopo la tempesta. In Firefly Constellations si può vedere una metafora della vita moderna, piatta e solitaria nonostante le apparenze, che scivola via in un’imbelle serenità per essere all’improvviso scossa da una parola, uno sguardo catturato fra la folla, un tocco casuale che innesca la voglia di comunicare e di aprirsi al modo esterno, con tutte le sue incognite. Ma le relazioni fra le persone sono difficili e complesse, a volte indecifrabili come interferenze radio, dove si capta qualche parole ogni tanto senza però ottenere un senso compiuto. E poi, vuoi per la frustrazione, vuoi per le convenzioni o semplicemente per paura, si lascia perdere tutto per tornare nei meandri del quieto vivere.
Non so se è la mia fantasia, ma Get Lost sembra parlare proprio di questo, della falsa serenità che ci circonda, traducibile in molti casi come apatia, dell’incapacità di scegliere il proprio destino dando un senso ad esistenze che si aprono e si chiudono piatte allo stesso modo. Ecco allora essere opportuno l’uso di atmosfere serene ed estatiche, così come la struttura circolare della maggior parte dei brani che si chiudono allo stesso modo in cui si sono aperti. Ed è mirabile come l’uso della chitarra, nonché l’innegabile perizia tecnica del protagonista, sia messa al servizio del plot concettuale senza concedersi ad inutili e tronfi estetismi. È un disco profondo e maturo, questo Get Lost, ed è sorprendente trovare tanta maturità in un artista così giovane, che — a ben vedere, tuttavia — si è formato con il lavoro in studio e l’attività live, evitando di imbrigliare la propria creatività e dandole invece libero sfogo in una miriade di uscite, senza calcoli di convenienza. Non è vera arte questa?