Pina BauschL’approccio di Pina Bausch alla danza era come quello di Michelangelo alla scultura: una sorta di rito epifanico, un continuo disvelamento, un’atavica e rabbiosa ricerca del nucleo essenziale; e in effetti, il contributo della coreografa tedesca all’arte di Tersicore ha rappresentato non solo un’innovazione nelle possibilità drammaturgiche del corpo, ma un vero e proprio capovolgimento filosofico; basta guardare l’espressività dei suoi ballerini-sentimento, per capire tutta la forza distruttiva e allo stesso tempo “rigenerativa” che ha contraddistinto il pensiero bauschiano; lontano dai principi estetici artefatti del balletto classico, dalla leziosità delle pose ottocentesche, dal tecnicismo esasperato di matrice russa, lontano dalle distrazioni dei costumi e dall’orpello scenografico, si staglia la grande lezione di “Philippine” che ha avuto come obiettivo principale quello di riconsegnare al corpo la sua unità psicologica e di investire la danza di una funzione esplorativa fino a quel momento pressoché negata.
Ma cosa ha rappresentato sostanzialmente la danza di Pina Bausch? Un nuovo modo di intendere il movimento, un movimento introflesso, fortemente intellettuale, deciso a mettere a nudo il sentimento soggettivo del danzatore, che da una parte indaga il suo interno, e dall’altra riesce a offrire la traccia di un pensiero emotivamente condivisibile. Ancora oggi, vedere queste performance, vuol dire partecipare di un’idea, di un affresco di emozioni vibranti, di frasi corporee che sembrano evocare i movimenti della vita medesima: geometrie spezzate, frammentazioni inattese, crolli scomposti, violente coazioni a ripetere, salti, lanci, cadute drastiche.

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Fare un film su Pina voleva dire abbracciare quindi un progetto ambizioso, complesso, e misurarsi necessariamente con questa rivoluzione culturale. Oltre a questa sfida poi, con la morte di Pina nel 2008, si è aggiunta una responsabilità quasi testamentaria che ha imposto a Wenders la chiamata a raccolta e la coordinazione dei ballerini, invitati a reinterpretare con rigore quasi filologico le sue creazioni coreografiche. Ma non basta ancora perché anche il mezzo cinematografico comportava una riflessione importante: come fa un’arte riproducibile come il cinema a spiegare (o anche semplicemente a mostrare) un’arte, il teatro-danza, che è intrinsecamente non riproducibile? Come coniugare un’arte replicabile con l’idea di una performance che “si comprende mentre si fa” ed il cui senso è ancorato all’hic et nunc? Dopo cento minuti, possiamo dirlo: il regista tedesco trova un cifra convincente e riesce a offrire una pellicola che, nonostante le imperfezioni di ritmo, rimane onesta e pregnante. Con umiltà e devozione Wenders si ritira silenzioso dietro le quinte, lasciando al palcoscenico di Pina il ruolo del protagonista principale perché la rivoluzione-Bausch non può essere spiegata, o narrata, o argomentata, ma solo attraversata “epidermicamente”, “vissuta”, “scoperta” nel suo farsi progressivo. Così lo spettatore viene investito da una tridimensionalità psicologica prima ancora che tecnologica: le danze degli interpreti sono pensieri, meditazioni, lampi, respiri variati e dissonanti che la regia decide di testimoniare senza l’aiuto di alcun supporto didascalico.

Pina BauschCoerentemente, anche la sceneggiatura si fa sottile, esilissima, come i corpi flessuosi dei ballerini; persino le poche testimonianze filmate parlano di emozioni che non trovano descrizione ultimativa: singhiozzi, singulti, silenzi, commozioni perché – come diceva Pina – “danza è laddove termina la parola”. Grazie allo spoglio di Wenders, alla sua opera di essenzializzazione, lo spettatore riesce a penetrare lo spettacolo del Tanztheater, e a scivolare nella sua potenza visiva e visionaria. Le coreografie riassunte nel film sfilano giustapposte, libere di autodeterminarsi una a fianco all’altra, e mostrano un susseguirsi di manifestazioni corporee che evocano emozioni potenti e dolorosamente contraddittorie: euforia irrazionale, rabbia, autopunizione. Ma quella di Pina è un’arte totale che esonda i territori del teatro e del mimo, per abbandonare il palco e rovesciarsi nelle strade e nelle piazze. Nel “Café Muller” troviamo la scena dimessa di un teatro di tavoli e sedie. Una performance violenta e inquieta che parla di oggetti moltiplicati, di gesti ripetuti, di automazioni psichiche. La scena è quasi sempre in totale, si svolge negli angoli, i corpi scivolano sulle pareti in cerca di nuove prospettive, le azioni sono spesso decentrate e simultanee. Il “Café Muller” – opera simbolo della cifra bauschiana – confonde, sfiora il grottesco e il ridicolo, sembra parlare di un oblio esistenziale, dove anche la “follia” trova il suo spazio, il suo canale di sublimazione. In “La sacre du printemps” masse di corpi dialogano sincronicamente e giocano fra loro dilatando e comprimendo lo spazio, mentre in “Kontakthof” troviamo tutta l’intensità di un pensiero politico e sociale che pone al centro il tema dell’espropriazione e della macchinazione del corpo.

Non mancano poi i fondali naturali, dove i ballerini ritrovano il contatto con gli elementi primari: il calore della terra, la trasparente fluidità dell’acqua, la nudità della pietra, l’impalpabilità della sabbia del deserto. Insomma, questa pellicola offre una piccola anestesia di bellezza e alla fine riesce a consegnare intero il valore del messaggio bauschiano: per Pina l’oggetto di indagine fondamentale era la capacità trasformativa che possiede l’esperienza del movimento danzato, la possibilità di comporre un’espressività personale e originale in grado di indagare il proprio interno, la pensabilità di un’armonia quasi etica prima che estetica. L’impressione è che il lavoro dei danzatori di Pina sia il risultato di una “fenomenologia dello spirito” dove non sono tanto i ballerini a interpretare e mettere in forma l’emozione, ma l’emozione stessa, nel suo statuto più alto, a informare i ballerini. Ed è questa la magia che Wenders riesce a far fluire senza interferenze e manierismi d’autore. In Pina 3D parla solo la visione dei corpi, capaci di sostenere solo con tendini, muscoli, ossa e articolazioni tutto il tragico e il sublime dell’esistenza.

Helmut Newton: una scena dal balletto di Pina Bausch (1983)