Così come Wittgenstein all’inizio del Tractatus circoscrive la sua analisi a ciò che può essere pensato in termini razionali (ovvero la quasi totalità del pensiero filosofico occidentale) così Snow presenta il suo sguardo “digitale” sul mondo, uno sguardo che indaga le forme del visibile racchiuse tra l’assenza (il bianco) e la presenza (il nero) di colori.

Un fotogramma tratto da "Presents"

In questo senso si può parlare nel caso di Snow (e di Presents in particolare), di “cinema totale”, ovvero di quel cinema pre-figurato da Barjavel dove tutti gli elementi costitutivi del mezzo cinematografico trovano un loro equilibrio formale, un ambiente espressionista che faccia “dialogare” fra loro i suoni, i silenzi, i colori, gli attori, le musiche creando un territorio di esperienza nuovo. L’opera si apre con dei quadri alternati bianco/nero (il film è circolare poiché anche gli ultimi fotogrammi saranno costruiti sull’alternanza di quadri, stavolta bianco/rosso/nero) quasi a circoscrivere l’oggetto dell’indagine.

Il primo movimento di questa dialettica della visione vuole far ripensare l’immagine cinematografica, decostruirla manipolandola. Snow quì gioca con la sostanza filmica: la modella è immobile, il dinamismo dell’immagine non è all’interno del quadro, piuttosto è l’immagine stessa a muoversi, c’è lo stretching dello schermo, che da una linea verticale si assottiglia al punto di diventare una linea orizzontale che nasconde la figura della donna sdraiata di fianco.

Nel secondo movimento Snow procede alla decostruzione del discorso filmico convenzionale: un rumore continuo, una frequenza sotterranea accompagna il sonno della modella all’interno del set costruito dal regista stesso. Dopo qualche minuto di stasi innaturale, c’è il primo taglio che segna il risveglio, l’ingresso, l’inizio di una serie di routines quotidiane; fuori campo la voce di Snow comincia a contare: “one”… “two”… “three”… scandendo il movimento della donna-bambola-personaggio (similmente al burattinaio di Essere John Malkovich) e richiamando le sequenze della sceneggiatura.

Snow mette in discussione l’autenticità del fotogramma, la sua convenzionale rappresentazione. Snow come Lynch (da Lost Highways a Mulholland Drive) concepisce la vita come un qualcosa di già vissuto e registrato su altri supporti, come ad esempio i solchi di un disco, un play che è un playback. Tutto è innaturale, artificioso: i personaggi maschile e femminile sembrano Barbie e Ken in mano ad un burattinaio che ne tende i fili; i loro movimenti sono lenti, goffi e impacciati mentre i loro dialoghi sembrano uscire da un libro scolastico, pieno di situazioni tipiche e stereotipate (es. Lui le porta dei fiori e Lei gli chiede se vuole sentire dei dischi).

Fotogramma da "Presents" (1980) di Michael Snow

Come già detto i solchi del disco sembrano contenere, oltre ad una composizione musicale di archi, anche i movimenti dei personaggi e l’evolversi della messa in scena. I continui “scratches” del disco determinano anche gli sbandamenti dei personaggi nonché gli scossoni del set intero; la metafora è chiara, la vita regolata da schemi rigidi ha la fragilità di un disco sempre pronto a “saltare” o a rigarsi a causa della puntina, dispositivo di lettura molto sensibile (Music gives Life).

Snow non ha alcun rispetto per la sospensione dell’incredulità, infatti non esita a interrompere la rappresentazione (per ben 18 secondi), a spezzare il set in due parti (rivelando così il meccanismo girevole sottostante) a far chiudere le tende (per altri 18 secondi) e addirittura ad inquadrare – anche se per pochi istanti – persone estranee alla rappresentazione fuori dal set pur di non lasciar alcun dubbio sull’(in)autenticità dell’operazione.

Tutto è falso, tutto è costruito e viceversa, è tutto vero e si può distruggere: l’intero episodio centrale, se non forse Presents stesso, è reversibile; come nei romanzi di Philip K. Dick (In Senso Inverso, Ubik, Scorrete lacrime disse il poliziotto) il tempo e lo spazio si modificano, contorcendosi su loro stessi e generando “fratture” spazio-temporali. La musica gioca sempre un ruolo chiave, infatti ascoltandola in senso inverso, ci si accorge che la melodia, invece di distorcersi presenta solo piccole varianti; musica che costruisce, invece di distruggere.

Presents è anche un’opera aperta semiotica, l’autore stesso ha scritto che scaturisce dalla riflessione su tutti i significati possibili della parola inglese “present”, che costruisce un alone semantico ampio quanto ambiguo: presente (verbo), regalo, presentare, presentabile, presente (sostantivo).

Ad un tratto la telecamera invade il set e gli oggetti cominciano a cadere in pezzi, distruggendosi come se investiti da qualche corrente magnetica, la metafora ottica sottesa è quella della macchina da presa che modifica l’oggetto ripreso contro la pretesa neutralità delle posizioni realistiche. Il cinema di Snow si rifiuta di essere una “finestra sul mondo”, di documentare in maniera realistica la realtà.

La scenografia si sconquassa. Un fotogramma da "Presents" (1980)

Come insegna il Surrealismo (l’occhio sezionato di Chien Andalou di Dalì-Buńuel), bisogna distruggere la percezione convenzionale del mondo per far spazio a nuove visioni, che costituiscono di fatto un mondo (Vision affects image).

Le fessure presenti in Presents – sui muri, sul pavimento, tra le tende – rivelano l’illusione della realtà, dei “luoghi” comuni, il frantumarsi delle certezze consolidate; così come la crepa nel muro de La chute de la maison Husher (1928) di Jean Epstein con soggetto di Edgar Allan Poe e aiuto-regia di Luis Buńuel.

L’obiettivo di Snow è quello di decostruire il “geniale edificio” della realtà cinematografica, di rivelare la falsità dell’immagine e della rappresentazione cinematografica.

Tutto ciò gli è funzionale ad introdurre la propria sintesi visiva, il terzo movimento, dove la macchina da presa libera ormai dai vari Modi di Rappresentazione Istituzionali, si inventa nuove traiettorie, inseguendo vettori e linee di fuga sempre più sfuggenti. La telecamera hand-held di Snow offre una visione “partecipante”, adattandosi alle forme, ai colori e al movimento di quello che riprende: una pallina verde che scorre, dei bambini in girotondo, il volo degli uccelli, la sagoma delle montagne, la forma delle gru, l’altezza dei palazzi, le linee delle macchine, delle strade, dei tubi e degli animali; tutto scorre in questa sinfonia visiva. Il lavoro di Snow diventa un compendio sulle forme, uno studio dei colori, un concept album sulla molteplicità del reale.

Il montaggio è costruito sul ritmo di una percussione secca, decisa. Punti di sincronizzazione che sembrano battiti del cuore, l’assenza di suono tra un battito e l’altro provoca la sospensione del giudizio, l’arresto del tempo, astrazione (con)sentita.

La modalità di ripresa è empatica, partecipante, ricorda la ripresa della foglia di Forrest Gump o della busta di American Beauty. Il montaggio delle attrazioni consente di accostare un disco di hockey sul ghiaccio e un uccello nero che si libra nel cielo plumbeo, così come lo scorrere delle macchine in autostrada (e il movimento della macchina da presa) ricordano la curva descritta da un’altalena.

Snow indaga l’audiovisione da tutti i punti di vista: l’immagine di un’immagine (il primo episodio) il suono di un’immagine (il secondo episodio) e l’immagine di un suono (il terzo movimento).

In Vertical Features (1978) Peter Greenaway nella consueta forma del (finto) documentario, ci offre una visione del mondo in verticale, ovvero filmando una serie di strutture (alberi, pali, persone, edifici, fiori) accomunate dalla perpendicolarità con il terreno. Attraverso successive manipolazioni audiovisive – cambia il ritmo del montaggio nonché le musiche di Brian Eno e Michael Nyman –, il regista inglese presenta la terza versione del filmato che ha più di un punto in comune con il terzo movimento di Presents. In più, anche il delirio di Greenaway è generato da una riflessione logica sulla valenza visiva del numero 11 e del numero 1 11 1 (121, ovvero 11×11), che ricordano le derive semiotiche intorno al significato di Presents.

L'artista Michael Snow

Le opere dell’artista canadese sono in costante equilibrio tra l’illusione e la realtà, va da sé che il mezzo filmico, per sua stessa natura, incarna strutturalmente questa ambivalenza e le permette di raggiungere momenti di espressione altissimi, come nel caso di Wavelenght (1966-‘67), una zoomata di 45 minuti, lenta ma continua, inarrestabile come un’onda-di-tempo che tutto raccoglie e tutto ingoia.

La produzione di Michael Snow diventa osservatorio privilegiato del cinema sperimentale, un ambiente aperto nel quale confluiscono le diverse influenze delle avanguardie storiche europee (dall’Espressionismo tedesco al Surrealismo francese, passando per il Futurismo italiano) nonché le esperienze liminali del cinema d’avanguardia americano (il cinema visionario dei vari Brakhage, Anger, Warhol, Markopoulos, Richter, Mekas e Deren).