Ancora un’ora, ed è l’alba. Elvis parcheggia maldestramente la sua auto nel largo del motel in cui è rifugiato da diversi giorni, per seminare i suoi demoni. Scende con passo macilento. Arranca. Inciampa e cade, perdendo conoscenza. Alan Vega passa da lì. Alan è uno che ama vagare nel buio pungente della notte, per il gusto di coglierne il fantasma blu scuro. Resta lucido, a volte è solo un po’ su di giri, ma non gli piace perdere completamente il controllo degli eventi. Nota sulla strada un biancore rilucente. Sono i pantaloni scampanati e glitterati di Elvis, che quella notte ha disperatamente tentato di interpretare se stesso. Si avvicina e ne riconosce la gonfia, sconfitta figura. La cattiveria dei lupi è una scusa inventata da uomini in cerca di facili metafore. Decidere di tendere una mano per sollevarsi non è una questione di altruismo. No. È una legge non scritta, nel saliscendi bipolare dei forti. Quando rovina al suolo un mito, l’abitudine di finirlo è propria dell’ingrato e del miope. Alan lo sa sulla sua pelle di leggenda calante, e, per questo, tende quella mano ad Elvis. È l’alba del ringraziamento e della salvezza, poco prima dell’Apocalisse, in una stazione di servizio di un non-luogo bellissimo e tumefatto.
Niente di vero, in questo cortometraggio, se non la regia ruvida e sgualcita di Alex Zhang Hungtai, aka Dirty Beaches, giovane taiwanese trapiantato a Montreal via Hawaii. L’esotismo è solo esteriore. Il cuore pulsa incubi americani, dai colori sottoesposti, se non veri e propri quadretti di inquietante bianco e nero notturno. I numi tutelari sono proprio Elvis Presley ed Alan Vega, al cui cospetto l’altare si fa sempre più ricco, dopo una partenza in cdr, musicassette, split assolutamente frugale, scheletrica e spettrale. Non che il tempo abbia spalancato gioiosamente le finestre sulla desolazione, ma l’immaginario post-atomico degli esordi, con Horror, nel 2008, resiste al disastro, e risale la china, tornando – seppur insanamente – a sognare.
La linea di demarcazione tra lo sprofondare strumentale sotto le macerie di una precedente deflagrazione ed un primo, timido, vocalizzare è Solid State Gold, nel 2010. Naturalmente siamo anni luce dalla mera possibilità di entrare nelle grazie di un pubblico e di una critica che definire di nicchia sarebbe già molto ambizioso. Dirty Beaches è materia dolorosa, narcotica e disturbante. L’alternativa è un negoziare sull’uso più diffuso della voce, cosicché le distanze possano essere accorciate ed il pre-concetto venga stemperato. Ma questo non significa tirarsi a lucido pur di piacere. La mise rimane identica. Il ciuffo psychobilly ed il fare ombroso non mutano. Solo qualche piccola concessione lirica all’ascoltatore. Nel marzo 2011 il biglietto da visita definitivo è pronto e si chiama Badlands. Otto tracce e poco più di venticinque minuti possono bastare per colpire e affondare. Nessun aggiustamento nel suono e nessuna ricerca di una qualche patinata armonia. Tutto è molto precario, polveroso, sbilenco, e, per tutto questo, affascinante. La chitarra ossessiva che introduce Speedway King non è accordata, ma è, però, funzionale al voodoobilly sub-urbano che fa da sottofondo al crooning alterato di Alex. Subito dopo, in Horses, si inizia ad ondeggiare indolentemente al crepuscolo, come in una stanza vuota di una notte vuota con i Suicide in sottofondo per poi, sul più bello, ritrovarsi in dolce compagnia ed esagitare un po’ il ritmo ed il movimento (Sweet 17). Dolcezza c’è, a volerla cercare. Ma non è quel miele di pessima qualità, talmente denso da intossicare. Il retrogusto è pungente, romantico e lascivo, la melodia soffia parole su un collo immacolato e disarmato (A Hundred Highways), Elvis gioca a drogare le Ronettes di Be My Baby per smaliziarne l’incanto (True Blue) e poi fermare di colpo l’auto e ballare romanticamente con una di loro sul ciglio dell’imminente apocalisse (Lord Knows Best).
Ma la felicità e la gioia sono fugaci. La realtà, si sa, è tragica per natura, e quindi non può finire in bellezza. È necessario tornare a cadenzare i propri passi con marzialità catatonica (Black Nylon) e celebrare il rituale della propria, livida sopravvivenza nella stessa, effimera dimora (Hotel).
Il dado è tratto, Alex inizia a girare in tour extracontinentali, e la pletora d’ascolto si allarga a macchia d’olio, bramando ancora e ancora schegge di un universo onirico sfocato e terrorifico, a tratti lynchano, nel suo avvolgersi intorno ad ossessione e compulsioni.
Nella seconda metà di ottobre esce, per la Suicide Squeeze, Lone Runner, singolo 7” in edizione limitata di 750 copie. Un bel regalo, non c’è che dire. Stavolta Elvis resta fuori e Alan si fa da parte. Il delirio è nel suo climax, l’angoscia ispessisce i toni, la voce si fa più robusta, quasi a masticare pietrisco impastato di wiskhey, e quel Nick Cave tutto sommato spensierato di Red Right Hand che può timidamente profilarsi all’inizio della traccia non è che un’illusione di moribonda spensieratezza. La verità è una conturbante psicosi di pece.
Quanti sono i possibili motivi per cui scegliere un disco che, per qualche tempo, ci sia epidermico? Molti, certamente. A volte, però, la nostalgia del passato, l’inquietudine del presente e l’indifferenza al futuro possono bastare per non curarci di uno smalto che non serve. L’estasi è lacerante, e la bellezza è un tormento.